Jazz Portraits. Ep.1 Red Garland

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13 Marzo 2020

Portava tre note nella mano destra, Red Garland, e quattro nella sinistra, di un’ottava più basse. Come ogni boxeur degno di questo nome aveva nella destra la melodia e nella sinistra il ritmo. A guardarlo mentre suonava quei blocchi di accordi, con charme e una punta di distacco, come chi cerchi la propria misura nella leggerezza, avresti potuto indovinare che in gioventù aveva combattuto nella categoria dei Welter, arrivando a incrociare i guantoni con Sugar Ray Robinson.

Dicono che sia stato quest’aneddoto improbabile a conquistare Miles Davis, che amava la capacità dei pianisti di sgattaiolare sulla tastiera come un pugile stretto alle corde. “Il ritmo nella boxe è tutto. Qualsiasi movimento tu faccia, nasce dal cuore: o questo ha il ritmo giusto, o sei nei guai”. Sugar Ray lo ripeteva spesso, mentre si allenava con un’orchestrina jazz a bordo ring. Ma per un pianista, il ritmo può anche non essere importante, persino se nasci nell’epoca dell’hard bop. Red Garland sembrava in grado di imprigionare luce e polvere dentro le note, e quando passavano per le sue dita gli standard somigliavano a quei pavimenti dei saloni da ballo in cui probabilmente hanno nascosto un lampadario. Non conosceva molto del blues e non si allontanava mai troppo dai propri accordi, ma Miles gli aveva insegnato a suonare come Ahmad Jamal, ineffabile e senza grandi storie da raccontare, nulla di più complesso di una conversazione in terrazza, dove conta essere brillanti, non dire cose da ascoltare con la mano alla tempia.

Il suono del primo quintetto, quello per cui Miles scelse John Coltrane, Garland e la sezione ritmica composta da Paul Chambers e Philly Joe Jones, nasceva nelle nottate al Bohemia, per poi essere fissato in sessioni ravvicinate nello studio di Rudy Van Gelder, cercando spesso di onorare contratti firmati con troppa leggerezza. Tra maggio e ottobre 1956 venne registrato, di fatto in due sole sedute di studio, il materiale per i quattro dischi che sarebbero usciti per la Prestige Records. I titoli da soli spiegano l’assenza di un progetto. È un suono che va definendosi per approssimazioni. Nascono così Cooking with The Miles Davis Quintet, e poi, quasi fosse musica d’occasione, a stretto giro, Relaxin’,Workin’ e Steamin’.

Immaginate una sola giornata, di quelle lunghissime di casalinghitudine a cui siamo costretti, scandita da questi quattro momenti, una colonna sonora prima dilatata su due momenti di studio distanti mesi, e ora compressa in un tempo che ci appare interrotto nella sua incertezza lineare e invece identico a sé stesso nel suo andamento ciclico. Cerchiamo di renderlo rassicurante, ci dice Miles, proponendoci ancora una visione ortodossa e tonale del jazz. Poi verrà l’avventura intellettuale dell’incontro con il pianismo impressionista e neo-accademico di Bill Evans, calco bluesy di Debussy. E l’intuizione di operare per sottrazione, accogliendo solo alcuni gruppi di note, e abbandonando le altre al silenzio.

Red Garland avrebbe continuato invece a provare il gioco di gambe dei Welter, nei dischi con John Coltrane o Art Pepper, o nelle incisioni da leader, ancorate a una musica aristocratica e inessenziale, fatta di introduzioni che sembrano carillon, uno stile che forse nemmeno aveva scelto, e gli era rimasto appiccicato addosso come un peccato di gioventù. “Sono solo un pianista da coctail”. Ma è proprio per questo che ci piaceva.

TAG: Jazz, Red Garland
CAT: Musica

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