La musica bisestile. Giorno 176. The Traveling Wilburys

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1 Dicembre 2018

Cinque amici da sempre. Cinque artisti che hanno già avuto tutto e non devono più dimostrare nulla. Cinque ragazzetti narcisi e burloni, che si seggono insieme con una birra davanti e straparlano un paio di rime improvvisate, mentre gli altri abbozzano un riff. Nasce il miracolo dei Traveling Wilburys, uno dei sogni più belli della storia del rock

 

VOLUME ONE

 

George Harrison e Jeff Lynne (Electric Light Orchestra) sono stati amici per anni, e quando George, dopo anni di silenzio, scrisse un nuovo album, “Cloud nine”, Jeff gli costruì intorno una band pazzesca con Elton John alle tastiere, Jeff stesso ed Eric Clapton alle chitarre, Ringo Starr e Jim Keltner alla batteria e Bobby Kok, il fondatore della Philarmonia, al violoncello. Al momento di andare in tour, ovviamente, costoro non erano disponibili, e George si era sempre lamentato del fatto di non essere riuscito a portare sul palco la tensione e le vibrazioni della registrazione in studio.

“Volume one”, 1988

Ci furono discussioni. George sosteneva che il miracolo della perfezione si raggiunge solamente se nessuno in una band ha ancora bisogno di dimostrare alcunché, ed al contempo si sia amici abbastanza per dirsi chiaramente cosa si pensa – mandando a quel paese un eventuale produttore che si permettesse di essere più di un coordinatore del suono. Sicché, un giorno del 1987, George aveva fissato una prova con Jeff, e si presentò con Bob Dylan, che si era portato chitarra ed armonica a bocca. Dylan si era messo ad improvvisare sui brani di “Cloud nine”, e tutti insieme avevano stabilito che ci fosse bisogno di una voce più profonda di quella di George per farle emergere al meglio.

Sicché Jeff fece una telefonata, e la mattina dopo, alle prove, si presentò Roy Orbison – la vecchia icona di “Pretty woman”, uno della generazione precedente ai Beatles e che non suonava più da anni – ma con una voce come una cannonata. Dopo mezz’ora arrivò Dylan, in solito elegante ritardo, con un piccoletto col cappello da cowboy ed il banjo. Tom Petty. Nel giro di una settimana tirarono giù una ventina di canzoni, un mese dopo i Traveling Wilburys avevano registrato uno dei dischi più stupefacenti degli anni 80, in equilibrio tra il rock dei Sixties, il Hillbillies, il folk americano ed un country-rock compassato ed intrigante.

E stavolta ci fu il tour insieme, una sorta di miracolo, e poi premi a bizzeffe, milioni di dischi venduti, la voglia di registrare ancora, l’allegria di cinque ragazzini che, all’apice del successo, potevano fare casino senza farsi male, senza prevaricare, col solo gusto di stare insieme e divertirsi. Ma la vita è cattiva. Roy Orbison è morto durante le sessioni per la registrazione di un secondo album, e poco dopo George fu costretto a ritirarsi per combattere il cancro che, nel 2001, lo ucciderà. Questo disco, quindi, è un monumento all’amicizia, ed uno di quei monumenti che, senza che i suoi costruttori lo sapessero, era la parola fine della loro intera parabola.

Ascoltando “Handle with care” (maneggiare con cura), la strofa sulla manipolazione cui si sottopongono gli artisti per vincere un biglietto per la celebrità: “Sono stato fonte d’inganno, e sono stato ingannato; sono stato derubato e ridicolizzato; sono rimasto bloccato in aeroporto, terrorizzato; costretto a partecipare a delle riunioni, ipnotizzato, sovresposto, commercializzato”. Bo Dylan disse: “Non prendete nulla sul serio, ci stavamo prendendo in giro da soli, ridevamo come cornacchia cantandolo”. Non sono d’accordo. Nulla, quanto un vero scherzo, dovrebbe essere preso assolutamente sul serio.

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CAT: Musica

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