La musica bisestile. Giorno 195. Marillion

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11 Dicembre 2018

Fish è riuscito a costruire una sonorità simile a quella dei Genesis, ma all’interno di una produzione di pop profondo, appassionato ed intelligente, in cui il valore aggiunto è il testo, non la complessità musicale.

MISPLACED CHILDHOOD

 

Per lungo tempo, la somiglianza della voce di Fish con quella di Peter Gabriel mi aveva portato a sottovalutare i Marillion ed il loro stile a metà strada tra i Genesis e Bruce Springsteen. Poi, un giorno, lessi un’intervista in cui Fish raccontava della sua gioventù in Scozia, e di come, per avere la possibilità di suonare, avesse lavorato alla pompa di benzina e come giardiniere per diversi anni, con una coerenza stupefacente: “Non mi sono chiesto se ce l’avrei fatta. Mi sono chiesto quale fosse il modo più efficiente per diventare un musicista per uno che era cresciuto in un villaggio piccolissimo vicino ad Edimburgo, e non mi veniva nessuna idea migliore, sicché, giorno dopo giorno, ho continuato”.

“misplaced childhood”, 1985

Quando, nel 1981, dopo una serie di audizioni, i già esistenti Marillion lo scelsero come cantante, lui portò loro una serie di testi che lui aveva scritto negli anni, e gli altri (specie Ian Mosley, che aveva già lavorato con Steve Hackett dei Genesis) ne rimasero conquistati. Gli posero una sola condizione: trovarsi un soprannome. Il suo nome vero, Derek William Dick, significa, traslitterato in italiano volgare, Re Bello Pisello, ed è un nome che genera, ovviamente, una certa responsabilità.

Idiozie a parte, i lunghi e poetici testi di Fish divennero da subito la caratteristica portante della costruzione musicale della band, perché imposero una nuova metrica, diversa da quella semplice del rock, che portava quella che era in realtà una pop band a seguire direzioni del prog ed a misurarsi con Joni Mitchell, Leonard Cohen e Bruce Springsteen. Il disco che ho scelto è quello in cui questa tendenza non solo è più evidente, ma quella in cui il risultato è veramente riuscito. “Kayleigh” e “Lavender” divennero hit mondiali, ma anche un modo nuovo di mandare un grido di dolore: sei andata perché ti soffocavo, ti facevo paura, non eri in grado di gestire la rutilanza esorbitante della mia emotività.

Quindi hai fatto bene ad andartene. Una scelta opposta a quella del pathos insopportabile della scuola (contemporanea alla sua) di Jim Steinman, che aveva “creato” Meat Loaf, Ellen Foley, Bonnie Tyler e Céline Dion. In questo disco, per la prima volta, il chitarrista Steve Rothery smette di imitare Steve Hackett ed inventa un suo stile, più “scozzese”, radicato appunto nelle scale proprie della musica tradizionale, anch’esse molto più funzionali per i testi di Fish. Sicchè questo, alla fine, è un disco di pop music, ma meraviglioso e molto ben fatto – e non a caso rimase per mesi in classifica.

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CAT: Musica

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