La musica bisestile. Giorno 224. The Who
Dopo “Tommy”, Pete Townshend e compagni preparano un secondo concept album, che onora la grande stagione dei mods inglesi
QUADROPHENIA
Scegliere il miglior album dei The Who è un esercizio superfluo, oltre che impossibile. Si tratta della prima band della storia ad aver trovato una misura del rock che andasse al di là del rock’n’roll originario, senza mischiarsi col beat, senza sconfinare nelle propaggini del punk, senza scegliere la scorciatoia per quello stile melenso che porterò al gotico o all’heavy metal, che passano per stili “duri” e che sono, invece, mazurke, polka, valzer, roba vecchia di cento anni almeno, come lo stile portato al successo da Jim Steinman (Meat Loaf, Bonnie Tyler, etc.), il glam (T.Rex e successori), dai Deep Purple, gli Spooky Tooth e successori, oppure dagli eroi del lezioso, i Queen.
Niente di tutto questo. The Who è rimasta una band di rock senza se e senza ma, l’unica band che non abbia aggettivi, e che ogni volta che ha scoperto nuove strumentazioni (come il mellotron) le ha usate per aggiungere qualche atmosfera all’unica che sorregge l’intera loro produzione: un cantante (Roger Daltrey) con una voce pazzesca, che naturalmente con gli anni è calata, ma ha difeso lo stile fino in fondo; un chitarrista (Pete Townshend), con uno stile tutto suo (mulinare le braccia per mantenere il ritmo, spaccare le chitarre alla fine del concerto) e che puntava raramente sui riff, molti più spesso sulle armonie, scegliendo quindi quello che oggi si chiama garage punk, e che allora non aveva un nome, perché solo loro erano capaci di suonarlo in quel modo;
un bassista (John Entwistle), unico al mondo, che già nel 1965 suonava una mescolanza di generi che permetteva a Pete Townshend di tenere duri e rettilinei gli accordi che caratterizzano lo stile e, dietro il muro del suono, creava una scala armonica straordinaria, che magari era costruita sulla terza, sulla quinta o su una scala pentatonica modificata, che va ad armonizzare con la voce, non necessariamente con la chitarra, che diventa soprattutto uno strumento ritmico; Keith Moon, un batterista autodidatta, che ha sempre fatto una gran fatica a mantenere il ritmo, e che si era inventato uno stile tutto suo per poter stare alla pari con i suoi colleghi…
Dopodiché, alla fine degli anni 60, The Who scrisse “Tommy”, che è stato il secondo disco concept della storia del rock, e che è poi divenuto uno spettacolare film, che ospita Sting, Elton John e tanti altri eroi del pop e del rock, che se lo guardate oggi è certamente più vicino ai film di Frank Zappa che ai musical Andrew Lloyd Webber e Tim Rice. Questo secondo disco, scritto oltre dieci anni dopo, è molto diverso, anche se resta una celebrazione dei mod, ovvero del gruppo culturale di riferimento dei quattro ragazzi di The Who quando andavano ancora a scuola, e scrissero in metropolitana, il testo balbettante di “My generation”, dopo aver letto sul giornale la Regina che insultava i giovani mod come rappresentanti di una non-cultura di dementi senza futuro.
In questo nuovo disco sui mods, The Who crea un monumento al proprio passato, cercando per la prima volta di andare al di là degli stilemi usuali, cercando di apprendere le lezioni dei Led Zeppelin e delle altre grandi rock band degli anni 70. Va ascoltato con tenerezza, ascoltando le difficoltà trovate nell’esasperata ricerca di mantenere questa difficile cifra stilistica, e creare canzoni che siano belle, nuove, non scontate.
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