La musica bisestile. Giorno 239. Stefano Rosso

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2 Gennaio 2019

In questa generazione Roma ha conosciuto un solo, grandissimo menestrello. Uno che conoscono in pochi, ma che quei pochi amano svisceratamente, perché Stefano Rosso ha cantato la città come nessuno era mai stato capace di fare

UNA STORIA DISONESTA

 

Non ho idea di che anno fosse. C’era stata una manifestazione, ed alla fine di questa c’era una sorta di festa proletaria per strada, dietro Via dei Volsci, che per l’occasione era stata chiusa al traffico, ed era strapiena di gente meravigliosa. Non ricordo nemmeno chi ci fosse con me, perché a quelle sarabande ci si andava, semmai, per decisione spontanea, e la maggiore preoccupazione era: chi mi viene a prendere se i bus non vanno, da dove prendo un paio di biglietti da mille per la pizza a San Lorenzo, cosa sanno i miei genitori, quanto rischio domani a scuola. Il fatto che ci si andasse segretamente, e che ci fosse un’atmosfera cospirativa e “politica” era gran parte dell’emozione, e noi eravamo una nuvola. Eravamo bambini, come canto, già dal 1980, in quella che forse è la più fortunata delle canzoni che io abbia scritto.

“Una storia disonesta”, 1977

Di quella sera ricordo che mi indicarono la porta d’entrata di Radio Onda Rossa, e che invidiavo chi ne entrava ed usciva con barboni incolti, eskimo, aria indaffarata, sigaretta in bocca, salopette, zoccoletti e chiome a coda di cavallo. Mi sembravano tutti così “grandi”, e magari non avevano nemmeno 30 anni, nessuno di loro, ma per me la distanza era immensa. Stefano Rosso, nel baretto all’angolo, nel giardinetto aperto, cantava “Valentina”, e quel nome mi sembrava tanto libertà, furia romantica, coraggio, vita spericolata.

A mezza voce si diceva che quel ragazzone che sembrava un operaio appena scappato dalla catena di montaggio di un film di Gian Maria Volonté, avesse cantato insieme a Claudio Baglioni. Un peccato inaccettabile. Noooo, Stefano Rosso è un compagno con i controcoglioni. Mi innamoro di lui quando canta “Contessa” di Pietrangeli, e tutti cantiamo con il pugno dritti verso il cielo ed i lucciconi negli occhi, e ci sentiamo tutti fratelli, eroi di un dispetto euforico e di un’avventura che sta lì lì per cominciare e ci porterà in un mondo nuovo, che è come l’altra faccia nascosta di Roma.

Una Roma compresente, ma che vediamo solo noi, che popoliamo solo noi. La gente normale, con i suoi occhi foderati di noia e paranoia, non può vederla. Non c’erano mai momenti di paura, nemmeno di preoccupazione, come quando andai a vedere Guccini e poi Bennato al Gianicolo, con mio fratello Fabio sulle spalle, che non andava nemmeno ancora alle elementari. Tutto era allegro, familiare, sorridente – persino la tristezza e la solitudine. Stefano Rosso sembrava la voce di Lando Fiorini trapiantata in “uno de noantri”, e quando cantava “Ammazzate ahò”, tutti cantavano e anch’io, che non l’avevo mai ascoltata prima, e continuavamo a gridare ammazzate ahò ancora ore dopo che lui aveva smesso ed era rimasto seduto lì, con un fiasco di vino, con un piatto di porchetta davanti, e tanta tanta gente intorno che gli parla, gli chiede, festeggia.

Se non siete romani farete fatica a capire perché io possa amare queste canzoni molto al di là dell’ottimo finger-picking, dei testi buffi e scanzonati: Stefano Rosso era essere romani ma non dei tempi di Rascel o Petrolini, quanto dei tempi nostri. La malinconia quella eterna di questa città dei gialli e rosa della mattina presto, della porpora ed arancione dei tramonti, delle ragazze bellissime che ti stracciano il cuore con indifferenza, del turbinio di ragazzi, come fogli di giornale, squadernati nel vento, pellerossa di una tribù sconsacrata e proibita, che corre all’impazzata da Campo de’ fiori a Piazza Navona, da Via del Pigneto a Baffetto, per strade piene di apette e motorini, di Renault 4 e di Fiat 500, di gente che ride prima ancora di sorridere, di gelide gazose e cioccolate calde. Quando ascoltate “Letto 26”, forse, Stefano Rosso diventa così preciso nel suo dolore da potervi raggiungere.

Roma nostra era un sogno, la nostra gioventù una fantastica follia. Nevol Querci e Paris Dell’Unto, insieme ai maialoni democristiani da Darida in poi, preparavano lo scempio che porta diritto fino alla catastrofe Virginia Raggi. Ma allora, noi, della possibilità dell’esistenza di una ragazzina isterica ed eterodiretta come lei, non sapevamo nulla, e non ci avremmo mai creduto. Stefano Rosso era tutto questo, e non era tra i venduti in TV. Era in strada, come noi, ed era giusto così.

 

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