La musica bisestile. Giorno 283. Amy Winehouse

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24 Gennaio 2019

Sta già alla fine, sul palco quasi non sta in piedi, eppure la casa discografica le procura una band pazzesca per registrare dal vivo le sue canzoni più belle

I TOLD YOU I WAS TROUBLE

 

Sono passati pochissimi anni, da quando è morta, ma è già trapassato remoto. Nel mondo in cui è vissuta, hanno sfruttato ogni possibilità di far denaro, finché ce ne sono state, dopodiché i suoi fan sono invecchiati e si occupano di altro, mentre i più giovani hanno altro per la testa. Non ha avuto la “fortuna” di far parte della grande generazione bruciata, quella di Janis Joplin, di Jimi Hendrix, di Gram Parsons, di Jim Morrison, di Mama Cass, di Tim Buckley, di Jim Croce… non ci sono musicisti, con cui lei è cresciuta, che sentono la sua mancanza.

“I told you I was trouble”, 2007

Era in parte una ragazzina viziata e suonata, una che quando ha iniziato era già con il cervello ed il fisico alla fine, una che aveva bruciato tutto prima ancora di sapere di valere qualcosa, e che non ha mai avuto abbastanza amor proprio o consapevolezza sufficienti per cavarsela. Non la figlia di genitori reduci di guerra e del perbenismo del cristianesimo fondamentalista e bigotto, ma la figlia del fango di periferia, cresciuta in una generazione in cui nessuno ha mai sognato nulla che potesse essere realizzato con la pochissima energia che hanno sempre avuto.

Del resto, Amy non ha dovuto faticare per arrivare in cima. Nata da una famiglia ebraica piccolo borghese della periferia londinese, aveva già da ragazzina una cover band delle Salt’n’Pepa, ed un suo amico registrò un demo con lei che cantava in chiesa, e la Universal le fece un contratto per tre dischi quando lei aveva 18 anni e nessuna idea di nulla, se non del sesso e della droga. Ogni cosa che lei scriveva veniva rielaborata da un gruppo di produttori professionisti e trasformato in oro. Quando fece il suo secondo disco, questo divenne disco di platino in due settimane, scalando le classifiche di tutto il mondo, ma lei era e restava una piccola sciroccata senza arte né parte, non una donna tormentata come era stata Janis Joplin.

Le sue interviste sono disarmanti, le sue storie “affettive” sono sciocchezze infantili, la sua famiglia nessun sostegno, la sua solitudine l’ovvia conseguenza della sua incapacità di socializzare. Galleggiava nella propria malattia ed autodistruzione, con tutti felici e contenti, perché, attaccati a lei, tutti si sono riempiti le tasche di soldi. I tanti ragazzi morti per droga alla fine degli anni 60 sono stati una tragedia, perché si trattava di artisti che avevano tanto da dare, e sarebbe bastato poco per salvarli (magari con l’eccezione di Jim Morrison), Amy Winehouse viene dopo la tragedia dei Nine Inch Nails, ovvero di una band di noise che si era autodistrutta per disprezzo profondo di sé stessi, della vita, di tutto. La canzone “Hurt”, specie nella versione di Johnny Cash, è un monumento al dolore inguaribile ed al suo significato.

Amy ha vissuto gli ultimi anni, quelli del successo, in una sorta di rimbambimento causato dalla droga ed in uno sfoggio di non si sa cosa, dovuto al fatto che credeva di doversi comportare in un certo modo per fare in modo che la ruota continuasse a girare ed a generare soldi. In questo senso, la differenza tra lei e Britney Spears è che la seconda ha sempre saputo che l’unica cosa che avesse da offrire era il proprio corpo, e quando ha raggiunto una certa età, dopo una lunga crisi di follia, ha messo la testa a posto ed ora timbra il cartellino a Las Vegas e magari, chissà, a volte è persino felice. Per Amy non c’era nulla da fare, era morta già all’uscita della canzone “Rehab”, non c’era più nulla da fare. Questo ultimo concerto, in cui era evidente che non fosse più veramente cosciente, l’ho scelto perché contiene le sue migliori canzoni e con un arrangiamento soul di grandissimo livello. Ed io non ho nessun motivo per voler dimenticare la sua immensa bravura.

 

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CAT: Musica

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