La musica bisestile. Giorno 294. Captain Beefheart
L’idolo di Frank Zappa si rivela essere un bluesman che odia gli schemi melodici e cerca di inserire dissonanze laddove tu ti aspetteresti che non ce ne fossero
SAFE AS MILK
Quando leggevo “Ciao 2001” capitava spesso di finire su qualche commento su Frank Zappa e la sua venerazione per Captain Beefheart. Ma non avevo la più pallida idea di cosa si trattasse, e fantasticavo di una musica che potesse andare persino al di là degli schemi, per me imperscrutabili, che le Mothers of Invention avevano violato in dischi stupendi come “Hot rats” o “The big wazoo”. Ogni volta che capitavo in una discoteca cercavo Captain Beefheart, ma niente, non c’era, finché una volta trovai una copia di “Trout mask replica”, il disco espressamente adorato da Zappa, ma per una cifra spropositata che ai tempi andava molto al di là dei limiti di ciò che mi sarei potuto ragionevolmente permettere.
Sicché, alla fine, quel disco l’ho comprato che avevo già più di 40 anni, molta più esperienza e cultura alle spalle, e soprattutto avevo superato la fase magica in cui certi artisti mi sembrava che facessero cose inspiegabili, e non solo meravigliose. Captain Beefheart mi apparve solo come il cantante di una band i blues suonato male, volutamente male, come una sorta di cattivaccio di quartiere, che ride su proprie barzellette che nessun altro capisce. Oggi capisco che nella seconda metà degli anni 60 poteva essere considerato trasgressivo, perché trasgrediva le regole sulle trasgressioni che, dal beat, erano state introdotte nel blues, nel pop, nel soul nel country – insomma, un po’ dappertutto. Per giunta, ho deciso che preferivo un altro disco del capitano, “Safe as milk”, nel quale le infantili trasgressioni sono più evidenti, meno leziose, e si capisce che in fondo dietro tutta questa pompa c’è un Todd Rundgren dei poveri, e che il punto vero di riferimento dovessero essere i Nazz (che infatti Frank Zappa adirava) ed i Devo (che sono venuti secoli dopo).
Don Glen Vliet, prima di diventare Captain Beefheart, era un bravissimo scultore e pittore, che durante la sua carriera di artista aveva deciso, insieme al suo compagno di scuola Frank Zappa, di fare un disco di rock rumorista: “Trout Mask Replica”. I due lavoravano in modo simile: scrivevano le parti di ogni singolo musicista e si infuriavano in caso di improvvisazioni, conservando una rigidità che faceva in modo che la sua musica folle suonasse esattamente allo stesso modo in studio e dal vivo. Vi stupirete, ma in questo modo ha vissuto e guadagnato bene, e se non si fosse ammalato di sclerosi multipla, invece di lasciarci a soli 69 anni, sarebbe ancora lì a deliziarci con qualche altro disco. Mi spiego meglio: mi piace abbastanza, ma non lo trovo rivoluzionario. So benissimo che costituisce una pietra miliare nella storia del rock, perché ai suoi tempi non c’erano ancora stati certi dischi di Zappa e dei Beatles, e certi rumori non erano ancora entrati a far parte del salotto buono del rock, e quindi capisco che gli si debba rendere grazie e che sia ingiusto dimenticarlo. Ma, sinceramente, trovo molto più innovativo Adam Green con i suoi Moldy Peaches. Un’opinione personale, comunque.
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