Robert Johnson che vendette l’anima al diavolo per il blues

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2 Giugno 2020

L’altro giorno, in una sonnolenta domenica pomeriggio di maggio mi è capitato di vedere un documentario, molto breve, sulla vita di Robert Johnson. Forse molti di voi lo conoscono come il primo ad entrare nel “club 27“, ma Robert, che ha avuto una vita breve e di sicuro non facile, è stato anche, probabilmente, uno dei musicisti blues più dotati e più universalmente riconosciuti come padri della musica rock contemporanea. Ma sebbene la sua leggenda faccia, e abbia fatto palpitare i cuori di molti amanti della musica “del diavolo”, la storia di Robert Johnson è stata prima di tutto quella di un “nero” americano, alle prese con una società ancora fortemente ghettizzata, in cui il blues era una valvola di sfogo per poter raccontare una condizione di disagio e di segregazione.

Prima di tutto il blues è poesia, una forma molto eloquente di elevazione da parte di una classe sociale che ha creato una forma di musica popolare originale e realmente americana. Nonostante si possano fare diverse congetture sull’origine della parola, e nonostante sia quasi universalmente riconosciuto che blues stia a significare una sorta di depressione e ansia emotiva, non tutti i brani assimilabili a questo genere “nero” erano tristi anche se con tali canzoni gli afroamericani intendevano guarire la loro “tristezza esistenziale”.

Il blues si suonava nelle bettole, dove uomini e donne si avvicendavano in balli carichi di sensualità talvolta fin troppo libertini, locali chiassosi in cui birra e whisky scorrevano a fiumi. Possiamo dire che l’America ha lasciato che nascesse il blues, nelle piantagioni di cotone, proibendo ai neri di imparare a leggere e scrivere, proibendo loro persino di suonare percussioni (accadde nel 1739 nella Carolina del Sud). Ma il blues è l’esempio che non si può fermare la musica ed ebbe modo di diffondersi apertamente subito dopo il 1865, anno in cui fu abolita la schiavitù e periodo in cui tanti ex-schiavi iniziarono a portare la loro musica nelle città e nelle vaste distese del sud.
Whiskey e canzoni, spesso suonate con rudimentali chitarre e armonica a bocca, fu così che i primi bluesman iniziarono a prendere coscienza che sarebbe stato possibile riuscire a sopravvivere grazie alla musica in 12 battute.

Comunque sia, il nostro Robert Johnson nacque a Hazlehurst, l’8 maggio 1911, frutto di una relazione extraconiugale, sebbene le fonti attendibili sulla sua stessa vita privata sono davvero molto esigue. Poco importa, le leggende hanno sempre delle storie complicate, vero? Sin da bambino Robert ama la musica, suona l’armonica e poi la chitarra. A 18 anni si innamora di Virginia Travis e si trasferisce a Robinsonville. Nonostante avesse sempre odiato fare una vita tranquilla Robert era pronto a smetterla di fare il sognatore, prendere un pezzo di terra e vivere dignitosamente con la sua nuova famiglia. Il destino gli fu però avverso, la moglie, appena sedicenne, morì dando alla luce il bambino. Robert iniziò a vagabondare per il Mississippi, bevendo più alcol possibile, trovò una nuova donna, ma il suo amore per la musica fu più grande di qualsiasi legame umano e non lo rese in grado di farsi una famiglia, o una casa in pianta stabile. Robert iniziò a vagare di città in città, suonando per pochi spiccioli, ubriacandosi e facendo perdere le proprie tracce, tornando sulle scene solamente dopo un anno, dimostrando delle capacità chitarristiche incredibili, considerato il poco tempo avuto a disposizione per esercitarsi – e nonostante le lezioni impartitegli da Ike Zinnerman, con cui imparò tecnica e stile.

 

 

Si dice che Robert Johnson avesse venduto la propria anima al diavolo all’incrocio tra le highway 61 e 49 a Clarksdale, e che da quel momento si fosse spinto sino a St.Louis, Chicago, Detroit e New York, in cerca di successo. La vita, adesso così sfavillante, non gli riservò però ancora molti anni da spendere sui palchi dei locali in cui si poteva suonare blues. Il 16 agosto 1938 a soli 27 anni, Robert muore. A raccontare la storia, l’armonicista Sonny Boy Williamson che testimonia come 15 miglia fuori da Greenwood, c’era un locale in cui lui, Robert e David Honeyboy Edwards suonavano ogni sabato sera dopo aver avuto un ingaggio per qualche settimana. Robert aveva una relazione con la moglie del gestore del locale, che lo venne a scoprire senza però dare in escandescenza. La sera del 13 agosto però, Robert aveva bevuto troppo, e i suoi atteggiamenti nei confronti della donna divennero quasi imbarazzanti, mentre il marito, osservava la scena da dietro il bancone. Durante una pausa, qualcuno offrì a Robert una bottiglia di whiskey già stappata, Sonny Boy però gliela tolse dicendogli di non bere mai da una bottiglia aperta. Lui però non lo ascoltò e si mise a bere avidamente un’altra bottiglia ugualmente stappata in precedenza. Passò poco tempo e fu chiaro che Johnson non era più grado di suonare. Lo accompagnarono a casa di un amico dove, steso sul letto, iniziò a delirare, mostrando segni di avvelenamento da stricnina. Morì dopo 2 giorni di intensa agonìa.

Come accadde per molti come lui, nessuno sa dove sia realmente sepolto Robert Johnson, nei dintorni di Greenwood ci sono ben 3 pietre tombali che vedono il suo nome inciso ad imperitura memoria. Molti amanti ed esperti di blues considerano come più probabile la lapide intestata a suo nome nel cimitero di Payne Chapel, vicino a Quito, un luogo poco distante dal Three Fork, il locale in cui venne avvelenato. Ma a chiamarsi Three Fork all’epoca vi erano innumerevoli bettole e sapere quale sia davvero l’ultima in cui Robert suonò sembra davvero impossibile.

Non abbiamo molte incisioni di Johnson, circa 40, tra provini e versioni alternative, molte registrate a San Antonio e altre a Dallas. Ancora oggi sul mercato dei cd e dei vinili, ma anche in streaming tra i vari servizi musicali, possiamo trovare le sue tracce intense e piene di malinconia, cariche di inquietudine. È come fossero stati d’animo che arrivano da quasi un secolo fa, ma sembrano non temere il passare del tempo, tanto che furono riscoperte negli anni’60, e divennero un bel manuale di esempio su cosa fosse il blues per tantissimi artisti che proprio in quegli anni ponevano le basi per il moderno rock’n’roll, gente come Eric Clapton, Keith Richards, i Led Zeppelin. Non è praticamente possibile fare una lista di tutte le “cover” che sono state fatte nel tempo, dei brani di Robert Johnson, ma forse le più importanti e famose sono “Crossroads” dei Cream e “Love in Vain” dei Rolling Stones. In quest’ultima la prima strofa dice: “L’ho seguita alla stazione, con una valigia in mano / e l’ho seguita alla stazione, con una valigia in mano. / Beh, è difficile da dire, è difficile da dire, quando tutto il tuo amore è vano, / Tutto il mio amore è vano“.

TAG: america, blues, club27, Musica, Robert Johnson, Rock, usa
CAT: Musica

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