Soundtrack – I dischi della settimana, 26 febbraio

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26 Febbraio 2020

Agnes Obel – Myopyia

 

Il nuovo disco di Agnes Obel è una rivelazione ed è molto probabilmente una delle uscite più belle degli ultimi anni. Stilisticamente ineccepibile, si muove tra una sinuosità musicale e vocale che sono a dir poco ammalianti, una conferma per Obel che dopo aver impressionato i paesi del Nord Europa affida ai toni glaciali una architettura musicale introspettiva che è pronta a fare preda degli ascoltatori di tutto il vecchio continente.
Pianoforte, vocalizzi, archi tenui, una moderna elettronica usata con parsimonia, Myopia è stato concepito a Berlino, ritrovando il gusto per la musica classica, colta e quella più popolare con alcuni tratti in cui si possono udire i richiami ad una Kate Bush in chiave moderna. La bellezza del disco sta anche nella produzione, ridotta all’essenziale, che riesce a creare un’amalgama sonoro efficace e coinvolgente. Island Of Doom è uno degli esempi più rappresentativi dell’ottimo lavoro svolto da Obel. E poi c’è Drosera, un pezzo dall’incedere quasi cinematografico giocato sulla prospettiva di un’azione che si svolge solo grazie agli strumenti, emozionanti e misurati. Can’t Be ripropone invece la voce a fare da linea tracciante su cui le parole di Obel disegnano spazi dalle altezze non definite. Un capolavoro è Parliament of Owls, probabilmente la traccia migliore dell’album, meno glaciale e più rassicurante, dai toni meno crepuscolari e più accorati così come la conclusiva Don’t You Call Me, in cui Obel passa alla ricerca di una sicurezza sentimentale che traspare da ogni singolo secondo di musica. Un album immenso, che conquisterà i vostri cuori, e vi farà venire voglia di ascoltarlo più e più volte, per introdurvi meglio nell’atmosfera rarefatta creata dall’artista danese, una delle menti migliori che questa vecchia Europa abbia mai concepito.

 

Charlotte Rose Benjamin – Party City

 

Ogni tanto il panorama musicale ha bisogno di freschezza e dinamicità. Ed è proprio con queste due parole che si potrebbe descrivere il nuovo EP di Charlotte Rose Benjamin, cantautrice di New York che dopo una bella gavetta nei locali notturni, a cantare a squarciagola, è stata notata dall’etichetta londinese Moshi Moshi. Non è difficile rimanere spiazzati dalla sua voce, poetica, gioviale ma allo stesso tempo dotata di una certa sicurezza, votata al pop ma anche ad episodi che possono spaziare tra giochi acustici e ballate più sostenute, talvolta country. La voce di Charlotte non ha tempo e non ha spazio, esprime emozioni e lo fa attraverso ritmi che sanno conquistare, sia nell’iniziale Cursed che nella più centrale Ten Thousand Pesos in cui l’andamento leggero e disincantato del pezzo riflettono le atmosfere quasi desertiche.
In una traccia come Autopilot emerge invece l’approccio più poetico alla musica, un brano in cui la voce ha il compito di guidare l’ascoltatore attraverso la canzone, soffermandosi su tonalità rassicuranti. Molto interessante anche la conclusiva A Certain Kind, una sorta di lenta ballad ispirata e ben strutturata. Il disco è molto bello ma lascia tutto in sospeso, come se Charlotte avesse lanciato un sasso in attesa di una mossa futura che, speriamo, sia bella quanto questa.

 

Wednesday – I Was Trying To Describe You To Someone

 

Sostanzialmente il modo di esistere dell’indie rock sussiste solo nel caso in cui si faccia riferimento ad una eterna adolescenza, da cui è sempre difficile staccarsi e da cui, se tutto va bene, non si guarirà mai, nemmeno in età adulta. Solo le band che riescono a non crescere, a rimanere se stesse malgrado gli anni, hanno davvero qualcosa da dire nel mondo dell’alternative. In questo caso i Wednesday si propongono come attuatori di una politica che è indirizzata alla confusione emotiva, con episodi che manifestano l’irascibilità della giovinezza e la precisione dell’età più matura. Il dinamismo è la prerogativa di un disco come I Was Trying To Describe You To Someone, in cui la voce di Karly Hatzman riesce a rimanere sempre sobria anche quando ad accompagnarla ci sono degli strumenti che riescono a creare un turbinio di emozioni, affascinanti, disturbanti, smaccatamente lo-fi. Sono solo otto tracce, che si fondono in un glorioso omaggio ai suoni tipici della musica alternativa americana, mettendo insieme shoegaze, grunge e chitarre pop, che si mescolano con energia.
Non è un caso che i temi delle canzoni siano tutti tentativi di accedere a vecchi ricordi personali, come ha dichiarato Hatzman. Underneath è forse la traccia più bella del disco, un approccio vagamente Sonic Youth con delle chitarre dissonanti e marcate, del tutto diversa dalla introspettiva November, notturna e solenne. L’album si chiude con Revenge of the Lawn, un tentativo a bassa definizione di creare una conclusione quasi onirica per un disco inversamente proporzionale alla dolcezza di queste ultime, sofferte, linee vocali.

 

Nelson Can – So Long Desire

 

Il trio danese è riuscito a dimostrare la propria ecletticità: Selina Gin alla voce apre spazi sconfinati, la bassista Signe SigneSigne alimenta ritmi sostenuti e la batterista Maria Juntunen serra nei ranghi l’esplosività dello slancio creativo delle tre.
Inquietudine elettronica, sperimentazione, è dal 2010 che i Nelson Can ci danno dentro con la loro inventiva e So Long Desire è il loro secondo album ad essere presentato al grande pubblico. E sarà anche l’ultimo. Un peccato perché con questo lavoro lo spazio lirico e musicale sono diventati sempre più raffinati, soprattutto in una traccia come Madness in cui atmosfere crepuscolari si aprono pian piano in un chiarore che nel finale diventa sostenuto da un ritmo pop assolutamente intrigante.
Insomma, le Nelson Can ci hanno regalato 10 anni di musica, canzoni forse troppo brevi in cui apprezzare il loro gusto per l’elettronica e il minimale, ma con un album come questo non ci possiamo lamentare, si parla di amore, bellezza, romanticismo e musicalità, soprattutto la voce di Selina Gin è un qualcosa che non dimenticheremo facilmente.

 

The Stooges – Fun House

 

Sono 50. Tanti. E si sentono tutti. Non per l’essere ormai fuori moda – Iggy Pop non è mai fuori moda, anzi – ma per rappresentare un mondo che ormai non esiste più. Un mondo in cui fare un disco non era una proiezione commerciale quanto una folgorazione che colpiva prima di tutto una band o un artista e poi l’ascoltatore, meno passivo di adesso nella fruizione della musica.
È così, sono passati 50 anni dall’uscita di Fun House, secondo disco degli Stooges, registrato tutto in pressa diretta in studio con pochissime sovraincisioni e con una tracklist che è rimasta quasi la stessa che aveva in mente la band quando è stato il momento di suonare.
La follia dell’Iguana si sente dall’inizio alla fine ed apre la strada a quello che sarà in futuro il mondo del rock più distruttivo, votato all’anarchia e all’autoinflizione di malanni e malumori che solo grandi band hanno saputo fare proprie.
Fun House fu registrato ad un anno dalla formazione della band, dopo un primo disco epocale e dopo che Iggy Pop aveva deciso di scardinare ulteriormente il varco aperto da Jim Morrison presentandosi come eroe maledetto e malsano di una generazione massacrata dalla guerra e per la quale la psichedelia era ormai più un oltraggio che l’andamento lisergico di un happening da figli dei fiori.
Riascoltare oggi una canzone-non canzone come L.A. Blues ci offre la meraviglia e il disgusto, l’ossessione e l’avventatezza di non poter definire in alcun modo una band come gli Stooges, precursori del punk e di qualsiasi altra cosa sia stata tentata dopo di loro, un mal di testa sonoro che rende prigioniero chiunque, per 50 anni e anche di più.

TAG: Agnes Obel, Charlotte Rose Benjamin, Nelson Can, Stooges, Wednesday
CAT: Musica

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