Se vuoi lavorare, chiedi il permesso

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7 Gennaio 2015

In Italia stiamo acquisendo sempre più consuetudine con la pratica dell’espatrio. La stiamo acquisendo rapidamente e male, nel senso che da fenomeno “per scelta”, contenuto nei numeri ed elitario nelle forme, è diventato prassi “per necessità”, diffusa e socialmente trasversale. L’amico che parte non fa più notizia, il figlio grande dell’amico che parte ci stupisce ancora meno e se la destinazione è Londra, che ormai è mainstream, lo troviamo addirittura un atto dovuto. Incuriosisce di più, magari, una méta meno ordinaria – l’Europa dell’Est, l’America del Sud, il Medio Oriente – o se a partire non sono i ventenni ma i loro genitori, con il loro bagaglio di esperienze e le loro carte ancora da giocare. Perché partono costoro? Non per indigenza ma per una valutazione razionale delle opportunità che l’altrove offre loro.

Si è circondati da esempi e testimonianze felici di amici e conoscenti che raccontano la normalità nel paese acquisito, e per noi che la regola è l’eccezione, la normalità diventa l’obiettivo. L’idea di partire, cercare fuori dall’Italia la serenità negata dall’Italia, risulta sensata, razionale. È razionale cercare di stare meglio, professionalmente e socialmente, in un paese dove sia più facile trovare il lavoro che si merita, e beneficiare di servizi che rendano economicamente ragionevole l’onere fiscale che comportano.

La scelta del paese dove trasferirsi tuttavia deve tener conto delle effettive opportunità di integrazione, dalla prospettiva di successo. L’emigrante “razionale” misura queste opportunità sulla competitività del proprio profilo, e la relativa compatibilità con l’ambiente. È razionale selezionare paesi culturalmente o esteticamente o climaticamente compatibili, ma anche valutare elementi fattuali.

Quel 70% e passa di nuovi italiani che si sono trasferiti a Londra nel 2013, ad esempio, suggerisce di vedere nell’Inghilterra una méta ormai inflazionata. Considerazioni analoghe posso essere ricavate dal successo che sta riscuotendo Berlino, di cui si dice un gran bene – ambiente cosmopolita, qualità della vita magnificamente sostenibile – e dove appunto gli espatriati da tutta Europa sono in aumento, e di conseguenza è in aumento anche la domanda di abitazioni mentre la loro disponibilità si contrae, ed aumenta parallelamente anche la concorrenza tra professionisti stranieri in cerca di buone occasioni lavorative ed un ecosistema sociale non vessatorio, accogliente.

L’expat razionale tiene conto anche di questo nel ponderare la propria scelta, e valuta dunque destinazioni alternative, meno ovvie, potenzialmente meno concorrenziali. Una persona che si occupa di digitale o che sta lavorando ad una start-up, e in Italia non trova prospettive, può pensare a Silicon Valley, all’Irlanda oppure ad Israele – piccola, ancora relativamente poco battuta, dinamica potenza del digitale globale.

In cifre assolute, l’espatrio in Israele riguarda quasi esclusivamente gli ebrei che fanno aliyah per ragioni antropologiche o religiose, ma la crisi economica europea ha generato anche un fenomeno di immigrazione ebraica “per necessità”, e in maniera sempre più sensibile questo tipo di nuova immigrazione viene dall’Italia.
L’economia israeliana nell’ultimo periodo si è contratta – inevitabile conseguenza dell’instabilità politico-militare dell’area (Isis è ad un confine, Hezbollah ad un altro, Hamas ad un altro ancora). Il turismo, nel 2014 è crollato. Anche al netto del BDS – il movimento Boycott, Divestment and Sanctions che milita per l’annichilimento economico e culturale dello stato ebraico – a causa del machismo, sebbene più esibito che reale, della leadership di Benjamin Netanyahu, Israele si è fatto una brutta reputazione tra le opinioni pubbliche internazionali, e questo comincia ad avere un impatto sulle imprese israeliane, anche le più competitive, innovative, avanzate che sono state le protagoniste della piccola start-up nation ammirata negli ultimi anni.

Il settore digitale tuttavia continua a funzionare, e questo rende Israele un’opzione razionale per un professionista italiano del settore. Israele però non è membro dell’Unione europea. Per poterci lavorare serve un permesso di lavoro, che è complicato ottenere anche quando si ha già un’azienda pronta a firmare il contratto di assunzione. La procedura è gravosa almeno quanto lo è quella per lavorare legalmente negli Usa o in Australia, ed a nessuna latitudine un’azienda è disposta ad aspettare i sei mesi necessari all’organismo governativo competente per autorizzare lo straniero ad essere assunto. Israele non fa eccezione.

La maggior parte delle aziende del digitale sono piccole o piccolissime. Se una multinazionale può seguire la procedura agevolata per i trasferimenti intra-aziendali da un paese in cui ha sede ad un altro in cui ha un’altra sede, un’azienda che sviluppa app in Israele è fatta da una manciata di persone, e non ha la possibilità di pianificare assunzioni e collaborazioni con una prospettiva così differita nel tempo; dunque rinuncia all’aspirante immigrato ed opta per un già residente.

Qui si apre un’altra opportunità: un non-ebreo in cerca di lavoro in Israele non può fare aliyah ma può ottenere un partnership visa per il quale occorre ovviamente possedere il pre-requisito di un partner israeliano (magari non contemporaneamente ad uno italiano), sebbene la regola si presti ad una infinità di trasgressioni compatibili anche con il doppio status. Il coinquilino israeliano omosessuale che finge una partnership formale con l’amica straniera non è affatto tabù, a Tel Aviv. Con il permesso di partnership, ottenere il permesso di lavoro è molto più facile, ma certo non così facile, per un europeo, come muoversi all’interno dell’area Ue.

Chiedere il permesso per lavorare è un dovere al quale siamo disabituati, noi europei viaggiatori intra-comunitari, sebbene si sia abituati a maneggiarlo dal punto di vista opposto, di paese ospite di immigrazione extra-europea. La libertà di muoversi e lavorare e vivere in un altro paese equivale ad uno spazio di opportunità moltiplicato per 27. Finché la nostra emigrazione verso paesi extra-europei – Usa, Australia, Sud America – è stata un fenomeno limitato ad accademici e diplomatici, la libertà di circolazione confinata ai soli paesi UE poteva anche andar bene: per chiunque non rientrasse nelle categorie professionali speciali, cioè la maggioranza, c’era l’Erasmus e bastava quello ad aprire le porte di una vita altrove.

Ma adesso l’Erasmus non basta più. Le frontiere dell’emigrazione “razionale” si allargano; ad espatriare non sono più solo le élite né solo i disperati, ma anche i sempre più numerosi che si spostano volentieri, se spostarsi significa favorire l’incontro tra la domanda professionale e l’offerta del proprio profilo, tra bisogni di cittadinanza e risposta a quei bisogni.

L’emigrazione italiana non è ancora solo “per necessità” e non è più solo “per scelta” ma è anche un’emigrazione “razionale”, che soddisfa l’esigenza di gratificazione dell’aspirante expat, insieme all’esigenza economica del paese ospite. È razionale favorire l’incontro tra due esigenze che si soddisfano a vicenda, è irrazionale frustrarle.

L’emigrazione economica “razionale” nasce da considerazioni, e configura spazi di opportunità, diversi dall’emigrazione economica “per necessità”, e tuttavia si applicano all’una le regole pensate per l’altra. Un professionista del digitale difficilmente potrà rientrare in un sistema di ingressi pro-quota, limitato ai settori produttivi in cui il paese-target abbia rilevato carenza di manodopera – come avviene negli Usa per le professioni sanitarie o in Italia per le attività stagionali e di assistenza alla persona. L’expat razionale del nostro esempio, l’italiano professionista dell’economia digitale, risponde ad un preciso bisogno del mercato – Israele, nella fattispecie – eppure un blocco non-economico ne impedisce la soddisfazione.

Le regole dell’immigrazione extra-europea, dal punto di vista di noi europei in cerca di opportunità fuori dall’Europa, risultano irrazionali: poco efficaci a scoraggiarne l’elusione e troppo rigide per favorirne gli obiettivi.
L’expat razionale è un lavoratore normale, non previsto dalle fattispecie normative, dunque resta fuori. A respingerlo però non è il mercato ma la legge sull’immigrazione economica che, semplicemente, non ne contempla l’eventualità.  

@kuliscioff  

 

  

TAG: Australia, europa, expat, Israele, Netanyahu, permesso di lavoro, Ue, usa
CAT: Occupazione

2 Commenti

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  1. lorenzo.grande 10 anni fa

    Grazie per questo post, anche se come ho già avuto modo di scrivere in un post proprio qui su GSG (http://www.glistatigenerali.com/demografica_disoccupazione_integrazione/non-chiamateci-cervelli-in-fuga/), sarebbe ora di cambiare il vocabolario utilizzato dai giornalisti quando si parla di expat.

    Visto che l’emigrazione è una scelta razionale, occorrerebbe smettere di usare termini come “fuga”, “invasione” e cosí via (cosa che tu intelligentemente non hai fatto, ma che è invece perno fondante dell’articolo sul Sole 24 Ore che hai linkato).

    Nel 2013 per esempio, a fronte di 82mila italiani espatriati, 140mila tedeschi se ne sono andati via senza tanto clamore giornalistico dalla propria Heimat. Vogliamo classificare questo fenomeno per quello che è, nei paesi sviluppati, ossia la libera circolazione di capitali e persone (sogno ultimo degli europeisti) o ci gingilliamo ancora con la favoletta dei disperati con valigia?

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    1. kuliscioff 10 anni fa

      lorenzo, concordo sulla banalità ed inadeguatezza dei termini con cui si racconta il fenomeno nel dibattito pubblico. abbiamo la possibilità di non adeguarci. in fondo, facciamo giornalismo anche noi.

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