Quando il lavoro (vero) fa cafone
“Se stai cercando solo un lavoro questa posizione non fa per te”
Strana premessa per un annuncio pubblicato su un portale dedicato ad offerte d’impiego. Eppure sono tante le frasi di questo genere che un aspirante lavoratore si trova davanti, sintomo di un paese – ma forse non capita solo dalle nostre parti – che ha ormai completamente frainteso il significato del termine. Se non ci fosse di che piangere verrebbe quasi da ridere di fronte al lungo elenco di competenze snocciolate nell’annuncio tipo a cui fa seguito, quasi sempre, un “contratto iniziale di apprendistato”. Sicuramente in Italia, addì 2018, siamo pieni di apprendisti ultra qualificati. Peccato che, per avere le ultra qualifiche, spesso si sia ampiamente al di fuori del limite anagrafico considerabile come decoroso per un apprendista. Peccato inoltre che – per definizione – l’apprendistato dovrebbe avere un termine e che questo termine, se l’azienda ha effettivamente bisogno di una posizione di quel tipo, dovrebbe avere come prosieguo (salvo casi di incompetenza, negligenza o scarso spirito di collaborazione) un impiego. Vero. Il che significa uno stipendio. Vero.
Sembra però che parlare di compenso e di responsabilità da parte del datore di lavoro nei confronti del lavoratore faccia cafone. “Ma come? Stai cercando solo un lavoro? Non t’interessa entrare a far parte di un team giovane e dinamico, dove sono richieste competenze specifiche, spiccate doti di adattamento, spirito proattivo, capacità di lavorare in gruppo, voglia di mettersi in gioco e anche due etti di anima in cambio di una voce in curriculum e dieci fagioli magici?”
Considerata la penuria di posti di lavoro “veri” nel nostro paese anche trovare “solo” un lavoro rappresenta, per molti, un enorme successo. Di contro il concetto di vocazione pura a cui fanno implicito riferimento molti annunci (Attenzione! Non cerchiamo un semplice addetto alle vendite, ma una persona così vocata alle vendite da farlo quasi gratis! In cambio però mettiamo a disposizione un ambiente dinamico e spazi di crescita. Esattamente verso quale ruolo per favore non chiedetecelo. Fa cafone anche questo), andrebbe riportato agli ambiti in cui la vocazione si può applicare, come il volontariato ad esempio. Qui entra però in gioco un ulteriore devastante fraintendimento culturale degli ultimi anni: il lavoro è spesso diventato volontariato e un certo tipo di volontariato è diventato così lavoro a tutti gli effetti. Solo non pagato.
Nulla in contrario, s’intenda, al fatto che un pensionato possa dedicare parte dei suoi pomeriggi come volontario nel doposcuola dei nipoti. Attenzione però, non si tratta di una presenza qualificata che può sostituire l’educatore, pena il calo della qualità di un servizio, da una parte, dall’altra lo svilimento di un ruolo professionale. Si tratta solo di un esempio, ma – per stare in tutt’altro settore – se ci dedicassimo a seguire con attenzione i piani di comunicazione di molte aziende medio-piccole, ci renderemmo conto che il mancato affidamento a professionisti genera mostri. Siti web che nemmeno Homer Simpson avrebbe potuto creare, brochure piene di errori, grafiche talmente approssimative da risultare controproducenti. D’altra parte per avere un lavoro ben fatto si dovrebbe ricorrere a un professionista, al quale però non si può chiedere di farlo a titolo volontario. O forse sì.
Se si pensa ai liberi professionisti, partite iva costrette a vere e proprie cacce ai pagamenti, lo scenario si fa ancora più fosco. La richiesta a titolo gratuito o con un accordo “fra amici” è all’ordine del giorno e chiedere, per avere qualche garanzia, un’accettazione di preventivo iniziale ufficiale in molti casi suona come un vilipendio. Mancanza di fiducia, si dice, che poi raramente, quando concessa, viene ripagata.
“Ogni giorno una partita iva si alza e sa che dovrà correre più veloce del suo committente per ottenere il pagamento della prestazione”
L’aumento di proposte al limite della decenza poi, sia dal punto di vista contrattuale che salariale, fa pensare ad un’imprenditoria miope rispetto al suo stesso futuro e allo sviluppo del paese. Per dirla in parole povere: possiamo anche accettare tutti di diventare volontari professionisti, peccato però che poi questo tipo di occupazione non sia utile per il mercato. Produciamo, quindi, ma per vendere a chi? Se ci soffermiamo sul pensiero che nel dopoguerra ha animato la creatività di molti imprenditori italiani, ci accorgiamo che partiva da un presupposto: far produrre ai lavoratori qualcosa che, con piccoli o grandi sacrifici, potessero acquistare loro per primi. Lavoratori e non apprendisti o volontari. Figure con una competenza professionale, ma – anche – con un potere d’acquisto.
Ma torniamo agli annunci “creativi”. Se scorrendo una bacheca di annunci economici trovassimo sotto la voce “compro” un annuncio in cui si fa richiesta di “un’auto, piccola cilindrata, immatricolazione post 2007, alimentazione a metano” e, in chiusura, un bel “prezzo massimo: rimborso della benzina necessaria per la consegna” prenderemmo per pazzo l’autore. Eppure non ci scandalizziamo di fronte a continue richieste di prestazioni gratuite o ampiamente sottopagate. Non ci scandalizziamo di fronte a quel “solo un lavoro”, che rappresenta un insulto per chiunque sia alla ricerca di un impiego per arrivare a fine mese e per la dignità stessa del lavoro, anzi, di tutti i lavori.
Ci siamo lasciati fregare dall’idea che il lavoro sia un fine e non un mezzo, dimenticandoci che anche il lavoro più bello del mondo, quello più vicino alle nostre aspirazioni ed esigenze, questo essere mitologico che “che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa” è e deve essere lavoro.
Deve essere riconosciuto, deve essere retribuito, deve avere un inizio e una fine, deve dare la possibilità a chi lo compie, di viverlo – e viversi – dignitosamente.
Perché non c’è alcuno spirito nobile, nessun principio superiore dietro alle richieste di “vocazione” in campo professionale. Solo l’esigenza di trarre il maggior profitto possibile da una situazione in cui, ancora una volta culturalmente, è passato il messaggio per cui chiedere un orario, delle garanzie, un mansionario e uno stipendio decoroso in sede di colloquio faccia cafone. Come se ci fosse anche la minima traccia, non tanto di classe quanto d’intelligenza imprenditoriale, nel fare certe offerte, nel rendere pubbliche, magari nero su bianco, su un sito di annunci, certe richieste.
Un commento
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E’ l’applicazione del detto “fatta la legge, trovato l’inganno” da parte di una delle classi imprenditoriali più approfittanti del mondo occidentale. Abbinato all’altro detto, che permea la cultura nazionale, “per pagare e per morire c’è sempre tempo”. Se ne deduce, anche in questo caso, che, al netto della considerazione tecnico-economica che i bassi salari sono connaturati a fasi di stagnazione, è soprattutto un problema culturale. Che va affrontato, nel breve periodo, dalla modifica delle leggi e dal potenziamento dei controlli; e, nel lungo periodo, dall’educazione.