Occupazione giovanile: tra overeducation e skills mismatch
Secondo recenti dati (fonte Eurostat), l’Italia si conferma tra i primi Paesi dell’Ue per la percentuale di under 35 che vivono ancora con i genitori: la media dei giovani di età compresa tra i 18 e i 34 anni che vivono ancora con i genitori è del 68,1%, contro una media UE del 50%.
Il dato conferma una situazione consolidata nel nostro Paese, che nell’UE è uno di quelli con la disoccupazione giovanile più elevata in assoluto (34,7% nel 2017 per i giovani tra i 15 e i 24 anni di età) e con una grande diffusione del lavoro precario, che non favorisce l’indipendenza economica dei giovani.
In Italia è presente un alto numero di disoccupati tra i NEET (15-29 anni) pari al 24,3 % contro una media UE del 14,2% ed è uno dei Paesi europei con la più bassa percentuale di laureati; tuttavia tra chi si laurea non è affatto irrilevante il numero di coloro che non trovano un’occupazione e sono costretti ad accettare lavori per i quali risultano overeducated.
Questo fenomeno deriva da una doppia combinazione di fattori: il primo riguarda lo Skills mismatch, ossia chi si laurea in Italia spesso presenta una formazione di tipo umanistico, che non è particolarmente interessante per le imprese; l’altro è che i piani di studi non sono stati aggiornati se non in minima parte rispetto ai cambiamenti che ha subito il mercato del lavoro e non formano gli studenti in modo adeguato alle competenze che potrebbero renderli appetibili sul mercato del lavoro.
La bassa percentuale di laureati e laureate STEM non copre se non in parte la domanda delle imprese italiane, in quanto c’è la tendenza per gli studenti a scegliere di studiare ciò che appassiona e non ciò che offre maggiori sbocchi sul mercato del lavoro: economia, ingegneria, statistica, medicina sono indirizzi in cui mancano laureati.
Abbondano invece laureati in discipline umanistiche che, pur rappresentando utili soft skills, da sole risultano poco appealing per i datori di lavoro nella scelta dei candidati se non accompagnate da ulteriori competenze.
La questione della disoccupazione giovanile riguarda anche altri ambiti, come il tasso di abbandono scolastico e la carenza di lavoratori specializzati.
A quest’ultimo si è tentato di trovare soluzione con la creazione dei corsi ITS: gli Istituti tecnici superiori.
Non si tratta del grado di istruzione tecnica, ma di scuole post diploma biennali in cui le stesse imprese mandano formatori per gli studenti selezionati che poi vengono molto spesso assunti dalle stesse, creando un ponte tra scuola e impresa che finora sta funzionando molto bene.
I corsi ITS hanno dato finora ottimi risultati: a un anno dalla conclusione del percorso, l’80% dei tecnici superiori diplomati trova occupazione nelle imprese e nei settori più innovativi e strategici dell’economia della regione, portando in azienda competenze altamente specialistiche e capacità d’innovazione.
Per iscriversi è richiesto il diploma di scuola secondaria di II grado e il superamento di una prova di ammissione.
Tuttavia si tratta di un progetto poco noto al pubblico, una realtà di nicchia insomma, cofinanziata con fondi europei che rimane appannaggio di un numero limitato di studenti ogni biennio.
Gli ITS sono una realtà presente in ogni regione italiana, con specializzazioni tipiche delle industrie del territorio.
Ad esempio a Rimini esiste un ITS in ambito turistico, a Modena relativo all’automotive, a Mirandola invece è specializzato in tecnologie biomedicali.
Implementare l’offerta di corsi ITS per poter formare ulteriori corsisti sembra una direzione non solo di buon senso, ma necessaria.
Investire nella formazione continua deve essere una direzione da incentivare al più presto possibile, per non perdere generazioni di lavoratori lungo la strada.
Secondo quanto rilevato da eminenti esperti del mercato del lavoro, il prossimo futuro vedrà diminuire in modo consistente le professioni di media specializzazione, mentre aumenteranno esponenzialmente i mestieri di bassa specializzazione e le professioni di alta specializzazione. Questo, a livello sociale, potrà creare ulteriori e più gravi diseguaglianze, in un Paese che, come il nostro, già subisce gli effetti di un’annosa crisi economica e strutturale.
Per un Paese riuscire a comprendere la direzione di dinamiche globali in un mondo ormai globalizzato e poter orientare le politiche sociali, è necessario, in modo da riuscire a intercettarne i cambiamenti e offrire una “rete di supporto” efficace, come può essere la previsione di politiche di sostegno alla formazione continua, per creare opportunità di ottenere lavori più remunerativi anche a coloro che per ceto sarebbero destinati ai lavori meno specializzati, nonostante le loro capacità.
Ripartire dalla valorizzazione e formazione dei docenti a tutti i livelli scolastici, destinare più finanziamenti a istituti secondari e alle università, per corsi extra da offrire agli studenti, adeguare in maniera maggiormente performante l’offerta formativa alle richieste del mercato del lavoro, possono e devono essere alcune delle priorità strutturali da attuare in ambito educativo.
Offrire le competenze per trovare lavoro e non sussidi deve essere la linea guida di uno Stato non meramente assistenzialista ma a sostegno ai lavoratori svantaggiati.
La meritocrazia delle opportunità deve essere il principio cardine per uno Stato moderno, democratico e attento ai cambiamenti sociali ed economici.
Prevedere diritti sociali importanti nella nostra Costituzione, come il diritto allo studio o all’accesso al lavoro deve essere conseguenzialmente supportato da politiche di sostegno e applicazione concreta di tali diritti che diversamente, rischiano di rimanere “lettera morta”.
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