L’Internazionale Rossa dello Sport e le Spartachiadi

23 Luglio 2021

Chi ha assistito alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Tokyo, avrà forse notato che gli atleti russi non hanno sfilato sotto le insegne del loro paese. Benché non occorresse molta fantasia per identificarli, il vessillo che inalberavano era quello del Comitato olimpico russo e non la bandiera nazionale. Inoltre, quando qualcuno di loro vincerà una gara, sul podio non ascolterà l’Inno di Stato della Federazione Russa, ma un estratto del Concerto per pianoforte n.1 di Pyotr Tchaikovsky. Gli amanti della bella musica penseranno certo a un miglioramento, ma si tratta pur sempre di una complessiva diminutio dell’ideale nazionalista che lo sport da sempre alimenta. Questa amputazione simbolica discende dalla squalifica inflitta a tutto lo sport della Russia per via dell’accertata manipolazione dei dati nel laboratorio antidoping di Mosca e, in verità, dalla contestuale volontà di non penalizzare tutto il movimento sportivo russo: un compromesso analogo era stato adottato anche alle Olimpiadi invernali del 2018.

Gli atleti russi alla cerimonia inaugurale di Tokyo 2020

Vengono così alla mente i contrasti che giusto 100 anni fa segnarono una frattura fra il giovane movimento olimpico internazionale e l’ancor più giovane Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss). Dopo la presa del Palazzo d’Inverno, che nel 1917 rovesciò il regime zarista, i bolscevichi intesero estendere anche allo sport le elaborazioni teoriche che avrebbero dovuto rifondare la società e le relazioni umane su basi del tutto innovative. Il 23 luglio 1921, a Mosca, durante il secondo congresso dell’Internazionale Comunista (nota soprattutto coll’abbreviazione di Comintern), fu fondata l’Internazionale Sportiva Rossa, o Sportintern, cui aderirono in prima battuta una decina di delegazioni straniere, inclusa quella italiana. Il nuovo organismo puntava a coniugare lo sport con la lotta di classe, allo scopo di promuovere i principi e i valori della Rivoluzione d’Ottobre anche attraverso la sempre più diffusa pratica sportiva [1]. L’istituzione dello Sportintern rifletteva peraltro la divisione del movimento operaio in una fazione comunista, che credeva che il capitalismo dovesse essere abbattuto dalla rivoluzione, e la corrente socialista, che invece propendeva per il riformismo politico e sociale e che aveva già creato, l’anno prima, l’Internazionale Socialista dello Sport. Era la stessa faglia politica che in Italia, nel gennaio 1921, al XVII Congresso del Partito Socialista Italiano, aveva determinato la scissione che dette vita al Partito Comunista d’Italia. Beninteso, lo Sportintern osteggiava anche l’idea dello sport borghese e capitalista, nonché le maggiori manifestazioni internazionali come le Olimpiadi, che “distoglievano i lavoratori dalla lotta di classe addestrandoli per nuove guerre imperialistiche” [2].

Per quanto non fosse ben chiaro in cosa consistesse la cultura fisica proletaria (fizicheskaia kultura), che mescolava ginnastica, esercizi correttivi, gare, parate ed escursioni, l’intento dei sovietici attraverso l’esercizio atletico era di incrementare la produttività lavorativa, di preparare gli uomini a difendere la patria della rivoluzione e di trasmettere l’abitudine al collettivismo, all’igiene e alla disciplina. Lo sport d’ispirazione borghese era invece rigettato per i suoi tratti d’individualismo e antagonismo e per la ricerca ossessiva dell’eccellenza prestazionale [3]. L’Urss pertanto restò fuori dall’universo sportivo che si riconosceva nel Comitato Olimpico Internazionale (CIO) e nelle federazioni che governavano le varie discipline. Si trattava di un isolazionismo che, va aggiunto, faceva il paio con il reciproco ostracismo delle stesse organizzazioni sportive occidentali, le quali non anelavano certamente a includere nei propri ranghi i rappresentanti di un paese il cui obiettivo conclamato era rovesciare i sistemi politico-economici capitalisti. Gli anni ’20 furono pertanto caratterizzati da sporadici o assenti contatti sportivi con l’estero, se si fa eccezione per i tentativi dello Sportintern di collegarsi ai movimenti sportivi operai all’estero, sempre con l’obiettivo principale di egemonizzarli e spostarli su posizioni politiche massimaliste.

Proprio l’ambigua natura dello Sportintern, sospeso fra la sua missione politica e il suo ruolo di organizzatore di attività sportive per i lavoratori, fu in parte responsabile dei suoi scarsi risultati, dovuti anche – è bene dirlo – alla sua netta subordinazione al Comintern e al Consiglio Supremo per l’Educazione fisica, che era un organo consultivo del Commissariato del popolo alla Difesa [4]. La condotta dello Sportintern dipese sempre dagli interessi dell’Urss e dello sport sovietico, anche se raramente questi coincidevano con quelli dei lavoratori europei, i quali in molti casi aderivano all’organizzazione senza condividerne gli obiettivi politici, ma soltanto allo scopo di avere un luogo dove soddisfare la loro passione per lo sport. Lo scollamento fra i vertici politicizzati e la base assai più dedita agli aspetti meramente ricreativi della questione, fu evidente anche e soprattutto in occasione delle Spartachiadi.

Il poster della prima edizione delle Spartachiadi

Il primo uso di questo termine è attribuito al fondatore del movimento sportivo operaio della Cecoslovacchia, il comunista Jiri Frantisek Chaloupecky, che nel 1921 chiamò così il festival della ginnastica che si tenne a Praga. Il riferimento al gladiatore trace che condusse una rivolta di schiavi nella Roma del I secolo a.c., intendeva simboleggiare l’unità e la fratellanza degli oppressi e degli sfruttati. Nel 1928, lo Sportintern battezzò allo stesso modo i giochi alternativi alle Olimpiadi di Amsterdam che furono organizzati a Mosca. Si trattò di un clamoroso successo, per il numero di partecipanti stranieri, per la risonanza mediatica e per i risultati, fra i quali spiccarono le vittorie del lottatore tedesco Werner Seelebinder, che sarebbe stato imprigionato dalla Gestapo e poi giustiziato nel 1944 per la sua opposizione al regime hitleriano [5]. La nota stonata, a sentire i guardiani dell’ortodossia bolscevica, furono i tanti partecipanti che presero la trasferta come una gita di piacere, scansando i doveri di indottrinamento e di educazione politica. Alle Spartachiadi di Lione del 1932, creò altrettanto scalpore il comportamento della tifoseria casalinga, che insultò diversi atleti stranieri, in barba al tanto reclamizzato internazionalismo proletario.

In effetti, a causa delle tare sopra descritte, lo Sportintern fallì quasi integralmente nei propri scopi: né promosse l’etica della rivoluzione socialista, né fu capace di re-inventare lo sport su basi ideali alternative. Erano tuttavia alle viste grossi cambiamenti. Nel 1928, Stalin aveva avuto la meglio sui suoi rivali interni ed era ormai un dittatore assoluto: dalla teoria della “rivoluzione permanente”, che postulava l’estensione della rivoluzione all’estero quale unica condizione per la sopravvivenza dell’Unione Sovietica, si era passati a quella del “socialismo in un paese solo”. Tutto doveva pertanto essere indirizzato alla difesa e alla protezione dell’unica nazione in cui il socialismo era al potere. Se fin dal 1920, era prevalsa la teoria del “fronte unito”, ossia collaborare almeno in teoria con gli altri partiti della sinistra, dopo il Comintern del 1928, i socialdemocratici furono equiparati ai fascisti e il riformismo divenne un nemico da combattere al pari del fascismo. Le ripercussioni sullo Sportintern furono la sua completa marginalizzazione e il suo totale assoggettamento alle direttive del Cremlino. Nemmeno i russi credevano più allo sport come sinonimo di solidarietà e amicizia operaia: il Consiglio Supremo per l’Educazione fisica stabilì che il coinvolgimento in una manifestazione sportiva, a maggior ragione se fuori dai patri confini, doveva avere come scopo esclusivo la vittoria, dei cui riflessi avrebbe beneficiato il prestigio interno ed esterno dell’Urss. Inoltre, la diffusione della disoccupazione in tutto il mondo avanzato in seguito al crollo di Wall Street e la diffusione delle dittature fasciste in Europa circoscrisse ancor di più il raggio d’azione dello Sportintern, che finì per rappresentare quasi esclusivamente gli iscritti sovietici [6].

All’inizio degli anni ’30, l’ufficiale ostilità verso lo sport occidentale e verso il modello competitivo orientato al risultato, fu abbandonata. Lo stesso Stalin esortò a gareggiare con i paesi capitalisti anche nello sport [7] e nel 1934 fu lanciata la parola d’ordine che incitava gli atleti sovietici a impossessarsi di tutti i record. Non per caso fu istituita una nuova categoria di sportivi di alto livello, cui si riservarono ampi privilegi e che poterono avere accesso ad attrezzature, materiali e persino allenatori importati dall’estero – il tennista francese Henri Cochet fu uno degli esperti stranieri che lavorarono per lo sport sovietico [8]. Anche l’isolazionismo fu rovesciato e per stimolarne il miglioramento i campioni sovietici furono spediti all’estero a competere contro i fuoriclasse occidentali, appena pochi anni prima denunciati come borghesi contro-rivoluzionari. Nel nuovo paradigma politico non c’era spazio per la tensione rivoluzionaria, per le posizioni anti-capitaliste e per il focus sullo sport proletario che erano nel DNA dello Sportintern, che a poco a poco scivolò nell’irrilevanza, fino a che nel 1937 fu sciolto dal Comintern. Adesso istruiti ad agire dentro le stesse organizzazioni borghesi, parallelamente alla politica dei “fronti popolari” che apriva le porte agli strati borghesi anti-fascisti, i comunisti cessarono di condannare le Olimpiadi come espressione dell’imperialismo e del militarismo capitalisti. L’Urss tuttavia non entrò nel CIO, data l’opposizione ideologica del suo presidente Baillet-Latour [9] e le incertezze interne circa l’effettiva competitività degli atleti sovietici.

Infine, dopo la Seconda guerra mondiale, l’Urss accettò pienamente il modello borghese di sport e delle relative autorità globali. Il nuovo rango di super-potenza e le impellenze della Guerra fredda spinsero l’Unione Sovietica nell’agone sportivo mondiale: i dividendi in termini di visibilità e propaganda che la partecipazione alle Olimpiadi potevano assicurare nel quadro della contrapposizione Est-Ovest, comportarono anche l’adesione a principi e valori che rischiavano di minare le fondamenta ideali e ideologiche del regime sovietico. L’Urss partecipò per la prima volta ai Giochi olimpici nel 1952, quando le Spartachiadi erano ormai diventate una manifestazione interna ai paesi del blocco comunista, senza più alcuna velleità di promozione dell’ecumenismo proletario.

 

[1] Curletto, M.A., I piedi dei soviet, il melangolo, 2010

[2] Riordan, J., The Sports Policy of the Soviet Union, 1917–1941, Routledge, 1998

[3] Keys, B., Globalizing Sport, Harvard University Press, 2006

[4] Gounot, A., Sport or Political Organization? Structures and Characteristics of the Red Sport International, in “Journal of Sport History”, febbraio 2002

[5] Carr, G.A., The Spartakiad: Its Approach and Modification from the Mass Displays of the Sokol, in “Sport History Review”, 1987

[6] Riordan, J., idem

[7] Keys, B., idem

[8] Keys, B., ibidem

[9] Keys, B., ibidem

TAG: Olimpiadi di Tokyo, sport
CAT: Olimpiadi

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