Il fuoco amico contro la segretaria del PD Elly Schlein è ripreso a pieno ritmo. Tanti dirigenti del PD si dicono pronti a far le valigie, mentre la stampa parla di massimalismo, di mancanza di idee e di leadership. Niente di nuovo, il PD ci ha abituato a guerre fratricide che si ripropongono ciclicamente. Proviamo a comprendere quali sono le differenze con il passato.
Dal 2007, tutti i segretari eletti con le primarie sono stati impallinati dal fuoco amico. Alcuni dei mali del PD erano già presenti sin dalle primarie che incoronarono Walter Veltroni, nelle quali dominò la retorica dell’unità contro le correnti. L’ostentazione dell’unità di facciata ha prodotto lo sgretolamento delle correnti come linee di pensiero dotate di una dignità politica, ma ha moltiplicato le correnti che facevano riferimento ai vari capibastone.
Così è nata la guerra per bande che conosciamo. Veltroni commise errori nella campagna elettorale del 2008, che portarono il PD a una sconfitta più larga del previsto. Si instaurò una specie di diarchia in cui Massimo D’Alema comandava la sua ala, mentre Veltroni guidava il PD. In difficoltà a guidare un partito bicefalo, Veltroni si dimise dopo una sconfitta minore, nelle regionali della Sardegna.
Alle primarie successive, Pier Luigi Bersani vinse contro Dario Franceschini, facendo prevalere i sostenitori di D’Alema su quelli di Veltroni. Bersani ebbe vita facile nei primi anni da segretario. Nessuno ne metteva in discussione la leadership. La triste e solitaria fuoriuscita di Francesco Rutelli rappresentò la rottura più importante di quegli anni, consumata quando il segretario era ancora Franceschini.
Poi arrivò Matteo Renzi. L’allora sindaco di Firenze sfruttò i tentennamenti di Bersani per salire agli onori della cronaca. Il sostegno al governo Monti danneggiò la leadership del segretario, mentre il sindaco lanciò la sua battaglia per la rottamazione dei dirigenti, di cui Massimo D’Alema diventò il bersaglio prediletto.
Bersani uscì ammaccato da questa brutta battaglia personale, che lo rese poco lucido. Le primarie successive furono un plebiscito per Matteo Renzi, che usò come trampolino per diventare Primo ministro. L’opposizione interna era praticamente inesistente. Una volta entrato a Palazzo Chigi, tanti oppositori apprezzarono i toni più pacati del segretario.
Nei primi anni di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, si notava una piccola minoranza particolarmente rissosa. Gianni Cuperlo si dimise da presidente del PD per questioni che apparivano più burocratiche che politiche. Altri, attaccavano quotidianamente il governo senza azzeccare una mossa. La pattuglia di critici sembrava vivere su un altro pianeta, ignorando l’enorme consenso che aveva il Primo ministro.
La situazione cambiò velocemente. Matteo Renzi perse presto il contatto con la realtà e con i suoi elettori. Gli errori si moltiplicarono e iniziò il tiro al bersaglio contro il segretario, fino alla scissione di Articolo 1.
Il PD perse la simpatia degli elettori e le nuove primarie incoronarono Nicola Zingaretti con poco entusiasmo, perché percepito come un leader che veniva dal passato. La sua segreteria si raffrontava con gruppi parlamentari nominati da Matteo Renzi. Si instaurò un partito bicefalo, ma la situazione era ben peggiore rispetto alla diarchia tra Veltroni e D’Alema. Dopo aver costretto Zingaretti a sostenere il governo Conte 2, Renzi lasciò il partito.
Renzi fondò Italia Viva, ma tanti renziani rimasero dentro il PD. Zingaretti si confrontava ora con gruppi parlamentari che erano espressione di un altro partito. La situazione era oggettivamente complicata e Zingaretti non riuscì né a ricucire le divisioni né a imporre la propria linea.
La nomina di Enrico Letta ha portato l’ennesima unità di facciata, fino alla sconfitta elettorale che ha scoperchiato il vaso di Pandora. Con l’insediamento del governo Meloni, sono emerse le due anime del PD. Un’anima preferisce la continuità, ovvero l’adesione acritica alla NATO, all’Europa e al neoliberismo economico, mentre guarda all’alleanza con i partiti di centro. L’altra mette in discussione tutto questo e guarda all’alleanza con il M5S.
La seconda opzione è prevalsa tra simpatizzanti del partito, i quali hanno nominato Elly Schlein segretaria perché stufi di votare un PD che si occupa solo di ordinaria amministrazione. La parte sconfitta ha attaccato la segretaria fin dall’insediamento, senza neanche aspettare la fine della luna di miele con i simpatizzanti.
Rispetto al passato, oggi gli attacchi non fanno riferimento a un’altra leadership. Ormai Renzi ha preso altre strade e Stefano Bonaccini non ha le capacità politiche per essere il leader della minoranza interna. Per la prima volta, l’opposizione avviene sulla linea politica da seguire.
Potrebbe essere la volta buona che il PD discuta su se stesso. Potrebbe domandarsi se preferisce continuare a compiacere giornalisti e poteri vari, oppure riconnettersi con le classi popolari. Se il PD riuscisse a delineare la sua identità, avrebbe un peso politico maggiore, a prescindere dai risultati delle europee del prossimo anno.
Con la sua estate militante, Elly Schlein ha messo le basi di un partito che ponga al centro i diritti civili ma che si occupi anche di salario minimo, di sanità e di transizione ecologica. La segretaria è stata molto brava a mettere al centro questi temi, ma deve essere aiutata a riempirli di contenuti politici.
Forse, per la Schlein è arrivato il momento di andare avanti circondandosi di chi può dare concretezza alle sue proposte. Per il resto, può trascurare le critiche e non preoccuparsi di chi vuole andarsene. Magari, il PD potrebbe finalmente superare quella fase adolescenziale in cui le sconfitte sono sempre colpa degli elettori, mentre cerca di scoprire se stesso.
(Immagine da Facebook)
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