Appunti minimi verso il Congresso: costruire un “Partito Democratico 3.0”

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21 Marzo 2017

Il 14 ottobre di quest’anno il Partito Democratico compirà dieci anni. Sembra lontano anni luce quel 14 ottobre del 2007, quando venne eletta l’Assemblea Costituente del nascente partito ispirato all’esperienza dell’Ulivo. Un nuovo partito che già dopo due anni iniziò subito a perdere dei pezzi. Nel 2009 andò via Francesco Rutelli, che fondò Alleanza per l’Italia. Nel 2010 fu il turno di Massimo Cacciari, che diede vita a Verso Nord. Nel 2015 Pippo Civati uscì per dare vita a Possibile. Nello stesso anno anche Stefano Fassina andò via fondando Futuro a Sinistra. Infine nel 2017 Pierluigi Bersani e Roberto Speranza sono andati via fondando Articolo 1 – Movimento Democratico e Progressista. Insomma, in questi dieci anni i pezzi persi sono stati molti. Matteo Renzi, vincitore del Congresso del 2013, voleva riformare il partito creando un Pd 2.0: vista la non attuazione di quel progetto, direi che oggi serve passare direttamente a un Pd 3.0.

In cosa consisteva quel Pd 2.0 tratteggiato da Renzi nel 2013 ma, purtroppo, mai realizzato? A descriverne le intenzioni generalisia nel dicembre 2013 a Congresso appena concluso, sia nel marzo 2014 durante una lezione nel master in media relation e comunicazione d’impresa all’Università Cattolica a Milano, era Francesco Nicodemo, allora responsabile della comunicazione del partito. Diceva: «Sino a oggi la comunicazione del Pd è stata disorganizzata: c’è una web tv, un sito internet, i giornali di area e una comunità di elettori sparsi per la rete. La parola d’ordine è invece intermedialità. Il sito web deve diventare la casa degli elettori, il luogo della trasparenza, dove chi vota conosce i deputati che sceglie, quanto guadagnano, quali le loro proposte. Poi serve un’implementazione della web Tv, che non può limitarsi al ruolo di “megafono” del segretario, ma deve diventare un teatro dove l’elettore è attore e non soltanto spettatore. […] Il mio obiettivo è riuscire fare in modo che il Pd, su alcune scelte, riesca a interrogare i suoi elettori, con referendum o sondaggi. Su questo si fonda il progetto “Pd community”, che punta a decentralizzare la costruzione dei processi decisionali del partito, per raccogliere il numero maggiore di feedback sulla scelte politiche». Sostanzialmente l’idea era quella di traghettare il partito nel ventunesimo secolo: comunicazione, trasparenza, potenziamento del ruolo degli iscritti e degli elettori, bidirezionalità nella comunicazione fra eletti e elettori. Un progetto ambizioso che nei primi mesi del 2014 iniziò a mostrare alcuni risultati, ma che poi fu stoppato e mai più ripreso e riavviato. Un progetto che dovrebbe porsi fra gli obiettivi quello di mettere un freno agli estremismi e ai populismi, rimettendo al centro la politica e il senso comunità. Creare forme di resistenza civile, come ben spiegato da Diego Galli in questo articolo apparso su Vita.

Cosa propongono oggi per il partito i tre candidati alla segreteria? La proposta di Emiliano è simile a quella sopra esposta: collegamenti fra eletti e elettori, coinvolgimento degli iscritti nella stesura dei programmi, consultazione degli eletti sulle scelte strategiche, ritorno a essere vicini si più poveri e alle persone più in difficoltà, formazione dei giovani e della classe politica. Orlando chiede che si rompa l’algoritmo che ha infilato il Pd in una bolla da cui non riesce più a sentire gli altri, afferma che il Pd ha già in se le risorse per riprendersi e occorre solo prendersene cura, chiede che si torni ad aprirsi alla società civile che oggi viene quasi respinta, chiede una netta distinzione tra Partito e governo a guida Pd. Renzi propone una specie di upgrade rispetto al suo programma del 2013: selezione e formazione della classe dirigente con un sistema di formazione continua, dotare ogni circolo di un referente per le attività e la raccolta dati, ripensare ai dirigenti Pd sul territorio come a “promotori e organizzatori di comunità”, creare un albo degli elettori a cui fare riferimento quando si vuole interrogare l’elettorato, prevedere modalità periodiche di confronto tra iscritti e elettori e eletti, una piattaforma chiamata Bob in cui poter comunicare e confrontarsi a ogni livello. Bastano queste proposte? Io penso che siano buone proposte, anche se alla fine sommariamente si somigliano fra di loro, e a loro volta assomigliano più o meno a tutti i propositi sentiti nei Congressi passati sulla necessità di riorganizzazione del partito. Oltre a questo credo si possa fare qualcosa in più.

Credo che alla giusta riorganizzazione del partito sotto il profilo pratico debba accompagnarsi un ripensamento dei contenuti e delle idee che si vogliono veicolare. È il momento di elaborare nuove idee, di esplorare nuovi terrori lasciati fin’ora preda dei crescenti estremismi, sviluppare nuove filosofie politiche. Insomma, come diceva Luca Sofri a fine febbraio, serve ripensare, serve “cambiare gioco”. Le domande che si pone sono esattamente quelle a cui questo Congresso dovrebbe provare a rispondere: «Se le democrazie funzionano in un altro modo (questa è “la crisi” delle democrazie: il loro avere cambiato modo di funzionare), come si fa a indirizzarle verso gli stessi posti dove volevamo portarle prima? Se i messaggi che funzionano sono altri, come si usano quei messaggi a fin di bene? Come si ottiene il consenso e la soddisfazione dei singoli per fare il bene di tutti?» Renzi nel 2013 rappresentò un profondo ripensamento per il centrosinistra, fu colui che scardinò alcune liturgie che duravano da sempre. Fece la sua pars destruens verso ciò che fino ad allora era il Pd, ma non portò mai a termine quello pars costruens che avrebbe dovuto dare vita a un partito rinnovato. Oggi serve tornare a dare risposte nuove a quelle domande. Provare a cambiare ancora paradigma. Provare a tornare protagonisti negli aspetti del mondo odierno e non soltanto succubi di una società in rapida evoluzione. Un esempio?

Per esempio uno degli aspetti del mondo attuale che offre più opportunità per le persone ma che ha anche più potenziali problemi distorsivi è la cosiddetta sharing economy. Ecco, uno degli obiettivi di un partito di centrosinistra dovrebbe essere quello di ipotizzare come rendere più giusta e equa questa economia. Su Red Mirror si prova a ragionare su questo tema, ricordando come sia profondamente sbagliato continuare a usare schemi politici interpretativi classici per fenomeni completamente nuovi e potenzialmente dirompenti. Servirebbe costruire «una nuova agenda politica fondata sulle ricchezze del possibile più che sulla resistenza dello status quo, o sulla conservazione dell’esistente». Di sharing economy ne parla anche il think thank Volta con questo paper, dove leggiamo che secondo PWC nel 2025 produrrà un Pil da 570bn di Dollari all’anno, dai 13bn del 2015. Un incremento notevole che potrebbe essere indirizzato al creare valore per tutte le persone, e non solo per alcune multinazionali. Time nel 2011 la definì come una delle idee che avrebbero cambiato il mondo, compito di un partito progressista di sinistra è fare in modo che questo cambiamento sia il più giusto ed equo possibile. Ma per farlo serve fare propri questi concetti e provare a declinarli nel modo più giusto possibile. In fondo la creazione di valore condivido è un concetto perfettamente di sinistra: sarebbe il caso di coglierlo per non farselo fregare da qualcun altro.

TAG: community organizing, comunicazione, congresso pd, riorganizzazione Pd, sharing economy
CAT: Partiti e politici

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