Siamo un popolo di najoni, che poi alla fine è anche comodo: qualcun altro pensa per te e tu devi limitarti a far finta di obbedire, e farti gli affaracci tuoi quando nessuno vede. Chi ha fatto la naja – non io, che mi sono limitato a qualche giorno di Maricentro e a una settimana di Marispedal La Spezia – si ricorda che non valevano le stesse regole del mondo esterno. Non c’era responsabilità individuale, se uno sgarrava, stava punita tutta la camerata; si cercava di mantenere l’ordine minacciando: se vi alzate in ritardo, flessioni; se non stai in linea, raccogli le foglie in cortile col biturbo (ovvero due bidoni delle immondizie in alluminio montati appaiati su un carrello); se non vi mettete le calze per uscire in borghese, niente franchigia (regola, questa, che bisognerebbe invece assolutamente ripristinare). E così via.
Naturalmente nessuno era responsabile di nulla, si faceva il minimo, e possibilmente meno del minimo, con quelli in mimetica che cercavano di stanare quelli in divisa blu per punirli. Non c’era senso del dovere, responsabilità, consapevolezza dei limiti, facevi quello che dovevi fare per paura della punizione e appena possibile ti imboscavi. Le caserme dell’epoca erano un mondo tutto maschile, un po’ come le task force oggi.
Gli ufficiali neanche ti prendevano in considerazione, un po’ come fare conferenze stampa in diretta facebook senza nessuno che possa fare domande; i sottufficiali sorvegliavano quelli che sorvegliavano i najoni. La delazione pagava: denunciare l’infrazione di un commilitone poteva farti guadagnare una licenza o qualche altro beneficio. Tutti dovevano indossare l’uniforme secondo determinate regole, ma appena potevano giravano i berretto, lo spiegazzavano: fuori ordinanza come una mascherina sotto il mento. Mutismo e rassegnazione, passi lunghi e ben distesi.
Non so a voi, ma a me ricorda tanto come stanno le cose là fuori: perché non possiamo non dirci najoni.
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