Da Atene, nessuna Apocalisse, solo tristezza: until further notice
Quando mi chiedono cosa sia l’arte dello storytelling, di solito rispondo: la distanza tra la realtà e la realtà percepita. Mai mi era capitato prima di osservare una distanza tanto grande come quella che sto osservando qui, ad Atene. Perché c’è una distanza che conta più dei chilometri, delle miglia e persino degli anni luce: è la distanza dell’incomunicabilità.
Qualche giorno fa, in seguito alla decisione di Tsipras di indire il referendum in corso in queste ore, l’Europa ha comunicato l’interruzione delle trattative con profonda tristezza. Non c’è dubbio che gli economisti, i tecnici e i politici di Lussemburgo e di Bruxelles siano preoccupati per la sorte delle finanze greche e che, quindi, siano profondamente tristi.
Tuttavia, anche i Greci chiamati oggi a votare (con un’affluenza che si prevede altissima, non c’è un solo greco con cui ho parlato che non andrà alle urne) sono profondamente tristi, ma per motivi diversi dall’Europa: è questo un popolo, oggi, logorato da una crisi economica senza pari.
Ecco la (tragica) distanza di cui parlavo prima: Europa e Grecia vivono tristezze diverse, l’una economica, l’altra sociale. Tristezze che non si avvicineranno mai, se non, forse, dopo questo referendum.
Arrivata all’aeroporto di Atene in piena notte, ho preso un taxi per il centro: alla guida una giovane donna, due figli piccoli a casa (da soli). Quando le ho chiesto del referendum, ha sorriso: per oltre un quarto d’ora, non l’ha messa in termini economici (euro o dracma) né ideologici (Europa sì o no). L’ha messa in termini di felicità: mi ha detto che non le importa nulla se dal bancomat escono euro, dracme, “quelli sono solo pezzi di carta con potere d’acquisto“. Ciò che le importa è stare bene. O almeno stare meglio, perché ora sta veramente male.
Mi preparavo ad arrivare in una Grecia in subbuglio, nervosa, divisa. Invece, per le strade, nei caffè, nei quartieri, la gente è distesa. Non c’è nessun clima da apocalisse economica, non c’è angoscia, in coda al bancomat si parla, si discute (mentre dall’Italia gli amici mi chiedono come si vive sull’orlo del default, se c’è cibo, acqua, corrente elettrica, quasi fosse in corso una guerra -in effetti, qualcosa di simile percepivo anch’io).
Oggi per le vie di Atene c’è attesa, certo, ma è un’attesa sgravata, come se il peggio fosse passato: è la forza della disperazione, quando non c’è più nulla da perdere. I Greci nel baratro, sull’orlo del default hanno già vissuto per anni, non hanno paura di finirci domattina. Insomma, al netto delle opinioni di economisti e di politici, cui non sono interessata perché non sono qui per questo, difficile trovare un greco convinto che domattina andrà peggio di quanto hanno già vissuto.
Per capire meglio quanto sono distanti le due profonde tristezze, ieri mattina ho portato una copia del Financial Times in un café di Ομονoια, una delle piazze principali di Atene. Gli anziani signori, seduti sulle sedie di plastica rossa, di quei numeri scritti sopra non ci capivano nulla e nulla volevano capirci. Il loro sì o no non dipenderà dai numeri. Ciò che chiedono è dignità, è stare un po’ meglio, perché la crisi economica di questi anni ha lasciato sfregi nella vita delle persone che difficilmente si riescono ad immaginare da lontano.
È stato allora che ho capito questo, che ciò che c’è scritto oggi sulla scheda elettorale (Volete approvare l’accordo consegnato dalla commissione Europea il 25 giugno...) conta poco o nulla: per tutti i Greci, oggi su quella scheda c’è scritto: volete stringere i denti ancora per un po’? Quanto resistete ancora in attesa del futuro che non arriva mai?
Cammino per Atene, la ricordo dieci anni fa, quando studiavo lettere classiche e l’università mi spediva qui: era una città molto più tesa, più spigolosa di quella di ora. Indecisa se essere in Europa oppure no, incerta se accettare che qualcuno le dicesse come doveva vivere oppure continuare a vivere come aveva sempre fatto, a modo suo. Oggi vedo invece il logoramento di una promessa, quella di benessere economico, che si è trasformata nel tradimento di una miseria infame.
Il Partenone riflette la luce d’oro del tramonto e penso alle radici classiche, alla culla della civiltà, alla letteratura, le arti, l’architettura e tutto ciò che la grecità classica ha prodotto e regalato al mondo intero: cammino e chiedo e queste radici classiche di cui tanto si parla sui giornali europei, le cerco e non le trovo. Persino urbanisticamente le rovine stanno lassù, sull’Acropoli, tempio di un tempo che non esiste più, anche se molti italiani si aspettano di sentire tutti i Greci declamare Platone o Euripide -come se un romano fosse tenuto, per il solo fatto di essere nato a Roma, a saper declamare Virgilio. Quelle radici classiche si sono perse, sopra si sono incrostati secoli e secoli di cambiamenti, la storia ha fatto il suo corso: la Grecia è stata certo l’origine della cultura classica, ma oggi di quell’eredità intellettuale è rimasto ben poco nella vita quotidiana del suo popolo. È più vicino ad un Ateniese del V secolo a.C. un ragazzino di un liceo italiano che un Ateniese dell’Atene del 2015.
Fuori dalla Grecia, la Grecia ha sulle sue spalle un passato che pesa più del suo futuro. Dentro, quel futuro lo sta ancora cercando. Per questo il punto del referendum di oggi, sia che vinca il sì oppure il no, non è percepito, dalla maggioranza delle persone, come una valutazione delle radici, dell’Europa, dell’euro: è la richiesta, la pretesa di stare meglio.
Di mio, anche se con profonda tristezza, credo ogni popolo abbia il diritto di pretendere, come può, un futuro migliore del presente.
Ora riprendo la metropolitana, gratuita until further notice. Ed è così che si vive questo giorno di elezioni ad Atene, in attesa di ulteriori notizie.
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