D’Attorre, il filosofo “secchione” saluta il Pd. E forse sbaglia

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5 Novembre 2015

Sono rimasto personalmente dispiaciuto quando ho appreso che che Alfredo D’Attorre ha lasciato il Partito Democratico, pur non avendo condiviso né molte delle sue prese di posizione né in generale la “non-linea” della minoranza dem, o “vecchia ditta” per chi preferisce usare i termini semplificati di questo tempo.

Mi spiace perché D’Attorre è persona colta e preparata come pochi altri parlamentari, è un filosofo – specie in via d’estinzione – ed è soprattutto un riflessivo che non ha ceduto alla volgare “semplificazione del tweet”, che tanto ha abbrutito quell’esercizio di filosofia applicata che dovrebbe ancora essere la politica. Ammetto che ascoltare i suoi interventi era faticoso. Nessuna battuta, un tono estremamente pacato e talvolta soporifero, un physique du rôle da noioso secchione nerd, quello che a scuola le sapeva tutte e l’insegnante ti indicava mentre in un italiano perfetto ti ripeteva la lezione di chimica. A quel tempo, il non detto dell’uomo dietro la cattedra era: «Vedi come si fa? Pippa!». Ma Alfredo era anche quello che il compito di matematica alla fine te lo faceva copiare, magari sbuffando un po’, perché tanto il tuo sei meno meno non avrebbe minimamente scalfito il valore del suo nove e mezzo, ma ti avrebbe dato un giorno la possibilità di andare almeno a fare l’insegnante.

Persino il suo addio non ha tradito il personaggio, basta leggere le sue parole: «Per me questa decisione arriva dopo un lungo tormento. Non è la decisione che avrei voluto assumere. Sono stato costretto a questa scelta dalla piega presa dal Pd. È venuta meno la verifica democratica interna». Avrebbe potuto utilizzare espressioni più colorite l’ormai ex parlamentare dem, lanciare qualche stoccata ai suoi colleghi più asserviti a “Leopolda s.p.a” o dire che il premier è succube di una bella ministra (lasciando intendere altro), come ha fatto un personaggio assai più blasonato di lui. Ma D’Attorre no, a tutto questo non si abbasserà mai. Per lui il problema è l’assenza di “verifica democratica interna”. E ora fateci un hashtag se ci riuscite.

Del suo congedo, forse più di altri congedi che lo hanno preceduto e di molti di quelli che verosimilmente arriveranno, mi spiace anche per un altro motivo. Il Pd che fondammo nel 2007 doveva essere un campo aperto a un reale confronto di idee e in parte lo è anche stato. Lo è stato persino quando – per far cadere il suo segretario e fondatore, Walter Veltroni​ – una parte si organizzò fondando un’associazione parallela, con tanto di tesseramento, web Tv, rivista. Ora c’è chi pensa che il campo sia chiuso, che non ci possa essere libertà di dissentire o di combattere delle battaglie a viso aperto dentro una forza politica che, proprio perché “a vocazione maggioritaria”, dovrebbe contenere in sé diverse declinazioni di pensiero e non dipendere dalle fortune fisiologicamente passeggere del leader di turno. È una lettura che giudico sbagliata, sia da parte di chi esce, che da parte di chi sostiene che o si segue la linea senza fiatare o ci si può accomodare una porta. Chi crede ciò – non me ne vogliano D’Attorre e gli altri che la pensano come lui – probabilmente non ha capito cosa sono oggi i partiti politici, ma ha le idee confuse anche su cosa sono stati nel recente passato.

C’è poi un’altra questione che però non riguarda ovviamente il solo D’Attorre. Forse coerenza vorrebbe che chi abbandona il partito che lo ha fatto eleggere in un’assemblea, perché non ne condivide più la linea politica, dovrebbe dimettersi dalle cariche acquisite in quota a quel partito. Una regola di buon senso che dovrebbe valere sia per chi entrò in Parlamento con il PD che per chi è fuoriuscito da altri partiti (quindi anche per quei parlamentari passati al PD, ma eletti sotto un altro simbolo), specialmente se si è stati nominati con delle liste bloccate. Altrimenti il paragone con i Razzi e gli Scilipoti potrebbe mortificare l’oggettivo valore di chiunque.

Il Pd perde dunque un altro pezzo, probabilmente uno dei meno incisivi dal punto di vista elettorale rispetto ad altri pezzi già andati. Ma al di là dei numeri perde un intellettuale, un libero pensatore. In altri tempi sarebbe stato un disastro. In altri tempi, appunto. Domani invece molti diranno: «D’Attorre chi?» E purtroppo lo faranno senza malizia.

TAG: alfredo d'attorre, Leopolda s.p.a., Matteo Renzi, partito democratico, vecchia ditta
CAT: Partiti e politici

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