Israele: coalizione al cardiopalma

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6 Maggio 2015

In tempi di Italicum (grida di trionfo da una parte, lanci di crisantemi ed imbavagliamenti dall’altra) è legittimo che anche il minimo accenno alla legge elettorale provochi nel lettore un automatico sbadiglio. Innegabile che il tema non sia tra i più appassionanti e difficilmente contestabile il fatto che di ben altre e più alte battaglie dovrebbe vivere la Politica. Eppure è dalla legge elettorale e dal sistema scelto che scaturiscono i Parlamenti e dunque i governi, con tutte le ricadute pratiche del caso. L’Italicum è diventato un cavallo di battaglia del nostro premier anche per via delle particolari circostanze che hanno portato il sindaco di Firenze a Palazzo Chigi: terzo Primo Ministro senza la consacrazione diretta delle urne, segretario di un partito nato con “vocazione maggioritaria” nel tentativo di lasciarsi alle spalle un passato di pericolanti ed elefantiache coalizioni, aderente ad una visione della politica nazionale modellata sulla figura popolare e dinamica del sindaco. Questi dunque i punti di forza dell’Italicum, così come ripetuti ossessivamente dai sostenitori: un premio di maggioranza in grado di cementare il successo del partito vincitore (ma che scatta solo oltre una certa percentuale di consensi), una soglia di sbarramento moderata, la possibilità di esprimere le preferenze nei collegi fatta salva l’introduzione di un capolista bloccato. Essendo al momento fortunatamente improbabile un prossimo ritorno alle urne, usciamo per un attimo dai confini del Belpaese e andiamo ad analizzare la situazione di estrema fragilità politica che si registra in queste ore all’altro capo del Mediterraneo: in Israele.

Le elezioni per la Knesset (il Parlamento israeliano) tenutesi il 17 marzo scorso avrebbero dovuto trasformarsi in un referendum tra il premier di destra uscente, Benjamin Netanyahu, e il suo sfidante di sinistra, il laburista Isaac Herzog. Herzog, alleato alla centrista Tzipi Livni, scendeva in campo alla guida di un’Unione Sionista contro il partito di governo, il Likud, e la galassia della destra religiosa e nazionalista. Come è noto, in Israele vige un sistema proporzionale puro e manca la suddivisione del territorio nazionale in collegi. Non è inoltre possibile esprimere preferenze per i singoli candidati in lista, ma solo per il partito scelto. La Knesset delineata dalle consultazioni di marzo sembra fatta apposta per rendere la formazione di un governo quantomeno complessa: il Likud stravince sull’Unione portando a casa 30 seggi (contro i 24 del duo Herzog-Livni), il partito di destra del Ministro degli Esteri uscente Avigdor Liberman soffre un po’ ma ne conquista sei, il centrista Yesh Atid (ex alleato di governo) subisce un duro colpo e ne raggranella undici, il partito di un fuoriuscito dal Likud (Kulanu) registra un incredibile successo strappandone inaspettatamente dieci. Sotto la decina i seggi dell’estrema sinistra, del partito ultra-ortodosso Shas e di altri afferenti alla destra religiosa. Preso atto della situazione il presidente Reuven Rivlin ha affidato l’incarico a Bibi Netanyahu, rinfrancato per l’insperata vittoria. Non è un mistero che da molte parti (soprattutto a Washington) ci si augurasse la vittoria del centrosinistra dialogante di Herzog, piuttosto che la conferma di un falco dichiaratamente poco gradito alla Casa Bianca. Il termine per costruire la coalizione, accordo dopo accordo, è stato fissato per oggi. Ciononostante, il destino del quarto gabinetto Netanyahu è appeso ad un filo.

Gli unici accordi formalizzati ed ufficializzati nel corso di questo intenso mese di trattative sono quelli con Kulanu e con una formazione di destra religiosa che si rifà alla Torah e che porta in dote sei preziosi seggi. Kulanu, vera sorpresa di queste elezioni, è il partito fondato dall’abile Moshe Kahlon (ex ministro militante nel Likud di Bibi) e ora candidato alla poltrona di Ministro delle Finanze. Determinatissimo nel portare avanti la propria agenda di riforme in campo socio-economico (in primis per contrastare l’emergenza abitativa che affligge le giovani coppie israeliane), Kahlon ha fatto sapere più volte che non accetterebbe mai di entrare a far parte di un governo troppo fragile e dunque inconcludente. Si candida a sostituire per contrasto la star televisiva Yair Lapid, suo predecessore alle Finanze e vero protagonista delle elezioni precedenti, che non è stato in grado di imporre gli ambiziosi programmi riformisti che ne avevano determinato il boom elettorale. Il movimento di Lapid, silurato da Netanyahu stesso alla fine dell’anno scorso, è per ora confinato all’opposizione.

Più complicata la trattativa con gli altri partiti della destra nazional-religiosa. Il leader di Focolare Ebraico, il rampante Naftali Bennett (ministro dell’Economia uscente), sembra aver rinunciato alla pretesa di ottenere portafogli pesanti quali Esteri e Difesa, ma continua a battibeccare con il rivale Shas per il cruciale Ministero degli Affari Religiosi. Il leader di quest’ultimo ha rifiutato il Ministero degli Interni perché gli era già stata rivolta contro una petizione popolare, ma continua a reclamare altre poltrone prestigiose per il proprio movimento. Il Ministro degli Esteri Liberman, preoccupato per la difficoltà con cui il suo Yisrael Beitenu è riuscito a scalare la quota di sei seggi, ha abbandonato di colpo i negoziati. Meglio restare all’opposizione che imbarcarsi in un governo di “opportunisti”, ha dichiarato in conferenza stampa. Liberare la casella degli Esteri in questo momento significa ovviamente riaccendere le ambizioni dei vari leader, facendo sfumare allo stesso tempo la soglia di sicurezza di 67 seggi. Soglia pervicacemente cercata da Netanyahu per gettare le fondamenta del suo quarto esecutivo, ma ora quasi del tutto impossibile da raggiungere.

Un’altra opzione è sul tavolo e coinvolge il vero convitato di pietra dei negoziati: Isaac Herzog. Netanyahu ha incontrato altri esponenti dell’opposizione, ma nessun rappresentante di Unione Sionista: mossa per prendere tempo in attesa di una richiesta ufficiale di sostegno? Solo un governo di larghe intese permetterà a Bibi di capitalizzare la sua vittoria? Entrambi i leader hanno promesso più volte in campagna elettorale che non sarebbero mai ricorsi ai voti del rivale per varare un esecutivo di Grande Coalizione. Alla luce di ciò, appare più probabile una mossa in due tempi: inaugurare la legislatura con un “governicchio” dai piedi d’argilla, nell’attesa che Herzog disputi e vinca le primarie per la leadership del suo partito; solo a quel punto, Bibi potrebbe gettare a mare gli alleati di destra e portare al governo il rivale, contando magari su un ambiente internazionale più favorevole nei suoi confronti.

Qualunque sarà la strada scelta, a Tel Aviv l’incertezza regna sovrana. Si badi dunque, prima di invocare il proporzionale quale garanzia di democraticità.

TAG: Herzog, Israele, Liberman, Netanyahu
CAT: Partiti e politici

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