La globalizzazione è in hangover: occupiamocene, o vincerà la paura

26 Gennaio 2017

Leggendo questo articolo  di Dino Amenduni sulla ricerca annuale Edelman sull’andamento della fiducia nel mondo, mi è inizialmente preso un grande sconforto.

La prima parte certificava una situazione che già conosciamo: la  progressiva scissione tra influenza e autorità. La sfiducia nelle élite, ormai sulla bocca di tutti i membri delle élite stesse, che nel 2016 ha portato cambiamenti politici di cui abbiamo solo iniziato a vedere gli effetti nefasti.

È brutto ed è triste, ma a conti fatti le élite durante la sbornia della globalizzazione e durante l’hangover della crisi hanno sostanzialmente pensato a minimizzare le loro perdite dimenticandosi quelli su cui poggia il loro piedistallo. E infatti ci troviamo con livelli di disuguaglianza nel ricco mondo occidentale che iniziano a preoccupare pure Christine Lagarde  che a Davos ha partecipato ad un panel dal nome piuttosto evocativo “Squeezed and angry: how to fix the middle-class crisis”.

Ma cosa vuole la gente? Quell’85%, che Edelman definisce “popolazione di massa” e che ha dichiarato un livello di fiducia aggregato (tra politica, impresa e ONG) del 45%, chiede determinazione alla politica e rigore etico alle imprese. La determinazione, l’uomo forte, servirebbe (credo) a rassicurare davanti alle paure che sono alla base di questa sfiducia nel futuro. Paure dovute, anche legittimamente, a corruzione, immigrazione, globalizzazione e velocità del cambiamento. Paure condivise non solo dalle fasce più deboli, ma anche dal 50% di chi è a alto reddito, segno che le fragilità sono ormai diffuse in tutte le fasce della popolazione. Non derubricare queste paure e cercare di dare risposte che favoriscano la coesione sociale e la ricostruzione di un capitale sociale credo che sia il primo compito di forze politiche progressiste in senso ampio.

Questa comprensibile richiesta di  “stare meglio n’importe quoi” sta sfociando in richiesta di protezionismo economico con un vigore impensabile solo pochi anni fa. E il 72% degli intervistati ha dichiarato di essere disposto ad accettare una minor crescita in cambio di provvedimenti protezionistici. Questo fatto mi ha colpito, forse la pancia della gente ogni tanto si collega al loro cervello. Forse siamo davvero arrivati a percepire un punto di saturazione nei consumi e la politica non può non tenerne conto.

Se la richiesta di protezionismo sarà il leit-motiv dei prossimi anni la politica non può arrestarlo, non può negarlo ma potrebbe per una volta tentare di governare un processo che, in un mondo perfetto, sarebbe in effetti controproducente ma che “in the real world” potrebbe rivelarsi meno stupido del previsto.

Dopotutto la globalizzazione era giusta e sensata da un punto di vista teorico, era lo strumento per allargare sempre di più la torta. Ma non siamo stati capaci di governare la divisione della torta e ora stiamo facendo i conti con chi non ha visto la sua fetta aumentare.

Da che parte incominciare? Fosse ovvio, scontato e facile la sapremmo già. Ma leggendo cosa chiedono i detentori di inflluenza (noi, la gente) alle imprese ho visto un barlume di speranza e forse potremmo favorire e sfruttare questo inaspettato allineamento (fosse anche parziale) di interessi. Alle imprese viene chiesto di saper rispondere alle domande di giustizia sociale, di investire sulle competenze dei dipendenti, di pagare le tasse, di non alzare i prezzi dei prodotti indispensabili in maniera esagerata, di non abbassare troppo la qualità pur di ridurre i costi e di fare reshoring (il ritorno della produzione che era stata delocalizzata). Tutto questo sembra che sarà essenziale per mantenere e consolidare la reputazione delle imprese, e in un mondo in cui ha ormai (a torto o a ragione) più credibilità l’ultimo dipendente o il piccolo consumatore credo che siano istanze che le imprese non abbiano più interesse a ignorare.

Spazio per la politica? Favoriamo il reshoring nei paesi “ricchi” e usiamo i fondi di WB e IMF per evitare che gli effetti degli investimenti offshore (che non sono tutti negativi) vadano dispersi e per facilitare la crescita di un sistema produttivo veramente “domestico”.

Ci si metterà un po’? Indubbiamente sì, ma inizieremmo a dare risposte più sensate di quelle che la gente sta ricevendo. E potremmo incominciare a ritrasformare il potere in autorevolezza.

È una bella favola? Può darsi, ma io ne sento il bisogno, per iniziare a lavorare per tirare fuori il meglio da una situazione che finora sta portando il peggio da Brexit a Trump aspettando la Le Pen.

TAG: disuguaglianza, protezionismo, reshoring
CAT: Partiti e politici

2 Commenti

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  1. silvia-bianchi 7 anni fa

    Sicuramente la richiesta di protezionismo è un tema da non trascurare, anche da parte delle forze politiche progressiste; mi chiedo però se il protezionismo sia la risposta giusta alla richiesta.
    “Protection” è la parola che Trump ha usato ripetutamente nel suo discorso di insediamento e bisogna ammettere che suona benissimo alle orecchie dei ceti medi impoveriti, spaventati e frustrati; ma quali sarebbero le conseguenze di una politica di massiccio “reshoring”?
    Alla mia mente di casalinga ignorante e non troppo benestante ne vengono solo due: l’aumento dei prezzi per i consumatori domestici (non so come avrei fatto in questi anni a vestire i miei figli piccoli senza l’abbigliamento di importazione a basso prezzo…) e la destabilizzazione economica e sociale dei paesi emergenti che perderebbero quelle produzioni (solo gli ignoranti e i demagoghi possono protestare contro l’olio tunisino e contemporaneamente strillare slogan come “aiutiamoli a casa loro”).
    C’è poi chi paventa che il reshoring non porterebbe grandi benefici all’occupazione, perché le nuove produzioni sarebbero altamente tecnologizzate: in quel caso, gli svantaggi dell’operazione supererebbero verosimilmente i vantaggi…
    Forse ciò che la gente vuole non è il protezionismo, ma la “protezione”: cioè un welfare che li accompagni senza traumi eccessivi verso un nuovo modello produttivo che prima o poi dovrà emergere. Se davvero la ricchezza si sta accumulando con tanta rapidità in pochissime mani, come tutti i report internazionali segnalano, le risorse per garantirla non dovrebbero mancare: si tratta di avere il coraggio di “andare a prenderle” – e forse proprio questo il compito difficile che spetta alle forze progressiste

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  2. holdenbibi 7 anni fa

    Interessante articolo e complimenti alla prof.ssa Cella. Mi chiedo se la risposta che viene data sia, oggi, praticabile senza dover rivedere in maniera radicale alcune scelte fatte in tempi passati e recenti (per prime quelle circa l’approviggionamento energetico). Mi interrogo inoltre sugli effetti globali: la globalizzazione ci ha insegnato che un battito d’ali di farfalla in Brasile può scatenare uno tsunami in Giappone e quindi, delle scelte più o meno radicali sul terreno del protezionismo, cosa possono generare?

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