Quattro anni di turbolenza: la diaspora dei pentastellati
Correva l’anno 2018. Dopo il grande exploit di cinque anni prima, quando il Movimento 5 stelle entrava per la prima volta in Parlamento con un consenso elettorale del 25%, prima forza politica nel nostro paese, la sua performance migliorò ancora, arrivando quasi al 33% dei voti. Un successo mai riscontrato in tutta la storia politica italiana. Nemmeno Berlusconi riuscì a tanto, nonostante il suo impero economico e mediatico. Una sorta di rivoluzione che concludeva un ventennio di sostanziale equilibrio bipolare, con la costante alternanza – da una elezione all’altra, dal 1994 al 2008 – tra governi di centrodestra e di centrosinistra.
Pareva davvero l’inizio di un mondo nuovo, caratterizzato da una forza politica che si proponeva dichiaratamente di cambiare l’ormai asfittico panorama politico-parlamentare con una iniezione di modernità, non ultimo con l’ausilio della Rete e di un personale giovane e distante anni-luce dai vecchi mestieranti della politica.
Il Movimento 5 stelle, combinando in maniera inedita un po’ di populismo e un po’ di innovazione tecnologica, diventava il punto di riferimento di elettori stanchi della politica tradizionale, ormai stufi delle vetuste contrapposizioni ideologiche tra destra e sinistra, senza che si riuscisse a fare significativi passi in avanti al paese, nella risoluzione degli endemici immobilismi di fondo, nello svecchiamento delle strutture sociali.
Quegli elettori ci hanno creduto, per qualche anno ancora, hanno atteso i grandi mutamenti promessi dagli esecutivi con il Movimento come protagonista, prima con la destra e poi con la sinistra al governo. Poi, parallelamente ad una buona percentuale di eletti, anche molti degli elettori se ne sono andati, un po’ delusi, un po’ perplessi, un po’ insoddisfatti, cercando altri lidi.
Dunque, dal 33% delle politiche 2018, si è passati prima al 17% delle Europee 2019 (quasi dimezzati) e poi alle attuali stime sulle intenzioni di voto, che vedono il M5s intorno al 13-14%. In pratica, in quattro anni, il Movimento ha perduto per strada quasi il 60% del proprio elettorato. Così come era stata davvero impressionante l’ascesa, altrettanto impressionante è stata la discesa verso la quarta posizione, nel ranking delle forze politiche.
E dove sono finiti quegli elettori che avevano così fortemente creduto nella loro proposta e nel loro ruolo inedito nello scenario partitico? Soltanto un terzo circa gli è rimasto fedele. Si tratta di uno dei tassi di fedeltà più basso mai registratosi nel breve volgere, appunto, di quattro anni. La maggior parte dei fuoriusciti (oltre il 22%) è andata verso destra, in particolare verso i Fratelli d’Italia, transitando provvisoriamente dalla Lega in occasione delle Europee e approdando poi definitivamente nel partito di Giorgia Meloni. Pochi, molto pochi hanno scelto il Partito Democratico (poco più del 4%) o altre forze di centro-sinistra o di sinistra.
La maggioranza relativa del 40% è (tornata) verso l’astensionismo o l’indecisione, in qualche modo confermando la profezia originaria di Beppe Grillo, che intendeva dare una voce con la sua creatura a coloro che, insoddisfatti della politica della “casta”, si sarebbero tenuti lontani dalle urne. E che ora resteranno di nuovo a casa, delusi dalle loro scelte di cinque anni orsono.
Talmente delusi che, oggi, il loro giudizio sul Movimento 5 stelle appare nettamente negativo: solo il 15% tra loro, al pari di chi è andato verso destra, ne dà infatti una valutazione positiva. Non si salva nemmeno il nuovo leader del M5s: Giuseppe Conte, molto amato quando era Presidente del Consiglio, viene ora giudicato positivamente solo da poco meno del 30% dei protagonisti della diaspora.
Un grande avvenire dietro le spalle, per lui e per il Movimento.
Università degli Studi di Milano
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