Dopo lunghe trattative e proteste da parte dei comitati per la casa, l’ultima inquilina di Calle dei Guardiani è stata sfrattata il 31 di luglio di quest’anno. Il palazzo, ex case popolari cedute dal comune a Ca’ Foscari a inizio anni ’70 è passato nel 2017 in mani private, fino ad arrivare alla Delta Immobiliare che ha deciso di destinarlo a uso turistico. Poche settimane prima nella città lagunare era scoppiato invece lo scandalo Boraso, che per la seconda volta in meno di un decennio fa tremare le fondamenta della politica veneziana: l’assessore Renato Boraso, fedelissimo del sindaco Brugnaro, è indagato per corruzione per la vendita di palazzo Papadopoli per 4 milioni in meno del suo valore di mercato. Nel mentre un altro filone dell’inchiesta coinvolge direttamente il primo cittadino per la cosiddetta area dei Pili a Marghera, ipotizzando un conflitto d’interessi nonostante la decisione di affidare a un blind trust le sue proprietà, in relazione a una vendita (mai avvenuta) della stessa area a un imprenditore singaporiano.
All’apparenza, queste due storie sembrano non avere nulla a che fare fra loro. Entrambe, però, fotografando da angolature diverse i sentieri di decadenza e regresso che la città ha imboccato con il consenso della politica locale e nazionale. La provincia di Venezia, infatti, è un territorio sempre più povero. Il tessuto industriale veneziano è in crisi cronica, da decenni: Eni, una linea di produzione alla volta, un settore alla volta, ha smantellato la Petrolchimica di Marghera, cuore della zona industriale di Portomarghera.
La Fincantieri, altra grande azienda partecipata dello Stato ad agire nel territorio, vive oggi di caporalato, false cooperative e condizioni di lavoro agghiaccianti per meno di 7 euro l’ora, secondo una vasta indagine avvenuta appena un anno fa. La provincia di Venezia, storicamente la più ricca del Veneto, ha oggi un PIL pro capite di circa 31.500€ contro i 33.800 di Belluno, 35.100 di Treviso e Verona, 35.500 di Padova e 36.800 di Vicenza. Questo si riflette anche sulla popolazione del comune, che cala a velocità più che doppia rispetto alla media regionale. Si tratta di un fenomeno maggiormente accentuato nel centro storico, che senza tornare ai 150.000 abitanti degli anni ‘60 dal 2000 ad oggi è passato da 66.000 a 48.000 residenti, ma ormai tutto il comune è colpito dalla fuga dei residenti, mediamente sempre più anziani.
Di fronte al placido ma apparentemente inevitabile declino della città, nove anni di giunta Brugnaro hanno fatto una chiara scelta politica: anziché provare a invertire il trend Venezia ha abbracciato un inesorabile declino, passando da un capitalismo produttivo a quello della rendita. La ricetta di Brugnaro è semplice: turismo e attività connesse, Bed & Breakfast, ristorazione e speculazione edilizia possono ben sostituire il collasso dell’industria veneziana. Una scelta coerente e portata avanti senza mezze misure: nonostante con l’emendamento Pellicani il comune di Venezia sia l’unico in Italia a poter legiferare efficacemente contro l’esplosione dei B&B, la giunta non ha mai agito in tale senso. Secondo i dati, i Bed & Breakfast sono passati da 2800 a 7400 nel comune, in larga parte non più gestiti da persone fisiche, ma da grandi gruppi proprietari di un numero considerevole di alloggi.
Quello che ha fatto, invece, è stato introdurre una misura spot come il ticket d’ingresso senza consultare i cittadini e senza porre un tetto agli ingressi, ottenendo solo di far cassa. Questo mentre disinvestiva sugli alloggi popolari in favore del social housing, rivolto anche alla classe media, che fatica anch’essa a trovare posto in una città che in un paradosso apparentemente inspiegabile si impoverisce, ma diventa sempre più costosa.
Queste scelte politiche sono insieme causa ed effetto della più grave delle crisi che colpisce la città: quella abitativa. L’aumento della rendita degli immobili, grazie a B&B e affitti brevi, ha fatto salire considerevolmente sia il canone medio d’affitto che il costo degli immobili, espellendo in modo sistematico dal centro storico lavoratori, studenti e famiglie. Se con gli studenti Brugnaro è stato chiarissimo in più occasioni (“Se paghi 700€ di affitto non meriti l’università”), le stesse dinamiche le vivono anche i lavoratori della sanità, della pubblica amministrazione e della scuola che, se assegnati al centro storico chiedono fin da subito il trasferimento, impoverendo i servizi al cittadino nella città d’acqua, già messi in difficoltà dal turismo.
In questo quadro di disgregazione dei pilastri sociali della democrazia emergono queste figure nuove: imprenditori con interessi in ogni ambito della città. Tanto che questi superano la mediazione partitica e prendono in prima persona in mano le redini della città. D’altronde Brugnaro è il fondatore e proprietario della più importante agenzia interinale della regione, Umana, che in un sistema che produce lavoro precario e stagionale, prospera. Dirigenti e collaboratori del comune sono spesso provenienti da Umana o altre aziende del sindaco. Un sistema talmente ramificateo che il conflitto d’interesse è ormai sistematico. L’idea di città e di democrazia che ha costruito è quella del plebiscito all’uomo forte e risoluto, capace di amministrare la città più come un’azienda che un servizio al cittadino. Decentramento ridotto all’osso come le spese nei servizi territoriali. Per esempio, i lavoratori dell’ACTV, il servizio di trasporto pubblico veneziano, hanno visto disdire gli accordi integrativi di secondo livello, coprono turni massacranti in una cronica mancanza di personale. Questi sono solo alcuni degli aspetti più deleteri dell’amministrazione Brugnaro.
Non è un caso che figure simili emergano in ex città industriali in crisi, come Venezia con Brugnaro o Terni con Bandecchi: in contesti impoveriti i grandi mezzi investiti personalmente nella campagna elettorale, il peso delle loro aziende e la narrazione dell’uomo di successo attecchiscono più che altrove. L’effetto è quello di un’amministrazione a servizio delle aziende, assieme alla svendita del patrimonio pubblico come dimostra il caso citato all’inizio. Ancora più paradossale è che a scommettere sul declino di Venezia sono soprattutto soggetti pubblici: oltre ai già citati ENI e Fincantieri, anche Bankitalia ha riconvertito una struttura di sua proprietà in campo San Bortolo in 12 appartamenti messi a rendita attraverso affitti brevi. Di fatto un albergo informale, per aggirare le norme comunali che limitano la costruzione di nuove strutture ricettive.
Il centrosinistra veneziano, da anni immerso in una lunga fase interlocutoria dopo essere stato coinvolto nello scandalo MOSE, sembra aver ritrovato finalmente vitalità con un ottimo risultato alle elezioni europee e con piazze partecipate a chiedere le dimissioni della giunta. Dimissioni o meno, fra poco più di un anno la città lagunare tornerà al voto, un po’ più povera, più vuota, più disillusa rispetto a quella trovata da Brugnaro un decennio fa. Al centrosinistra sarà chiesta non un’amministrazione migliore rispetto a quella del centrodestra, ma radicalmente diversa: mettere in discussione il sistema di rendita parasittaria su cui la precedente giunta ha basato la città, la centralità della funzione e dei servizi pubblici contro la commistione fra pubblico e privato che ha caratterizzato il decennio precedente, strumenti per attirare in città lavoro di qualità, risposte alla richiesta di maggiore sicurezza in quartieri della terraferma come via Piave diverse rispetto alle spacconate securitarie della destra. È una sfida politicamente improba, ma un successo anche parziale aprirebbe uno spiraglio di luce per il futuro delle città d’arte italiane: può esserci vita oltre la rendita.
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