Risiko multiutility tra politica e affari. Il caso IREN

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17 Giugno 2019

Se ne parla poco ma chi tratta o vende acqua, gas, energia e rifiuti produce il 7% del PIL, occupa centinaia di migliaia di lavoratori, fornisce servizi a milioni di cittadini ed esercita un’influenza sociale e politica che attira forti appetiti. Una chiave di lettura per capire alcune mosse dei partiti che hanno ben poco a che vedere con l’ideologia.

Energia, ma anche gas, acqua e rifiuti: è il business delle utility, che in Italia, secondo i dati del rapporto Top Utility 2018, realizzato da Althesys, gode di ottima salute. Nel 2016 con un valore della produzione superiore a 100 miliardi le prime 100 aziende del settore hanno dato un contributo del 7% al PIL nazionale, facendo registrare una crescita dell’1,2% rispetto all’anno precedente. Secondo un altro rapporto, quello di Agici-Accenture, nel 2017 l’utile aggregato dei principali operatori ha superato il miliardo di euro, un balzo in avanti di oltre il 15% rispetto all’anno precedente e nel 2019 ci si aspetta che gli utili crescano del 21% rispetto al 2017. Secondo Agici-Accenture è un trend che sta dentro una crescita del settore a livello continentale, trainata soprattutto dall’energia. Allo stesso tempo però il servizio peggiora. Secondo Althesys ‘I rapporti con i clienti e con gli altri stakeholder locali mostrano nel 2016 luci e ombre. L’indice di soddisfazione dei clienti peggiora, per la prima volta in quattro anni, passando da 85,07 nel 2015 a 82,05 nel 2016. In calo anche le performance del servizio clienti, con un lieve aumento dei tempi di attesa e un calo del livello di servizio dei call center. Crescono anche i reclami dei clienti’.

Relazioni pericolose tra utility e politica

E’ una branca dell’economia con un impatto rilevante sia in termini sociali che politici, dà lavoro a centinaia di migliaia di persone (130.000 solo nelle top 100) ed eroga servizi a milioni di cittadini e si tratta di aziende perlopiù ancora pubbliche, dove il ‘padrone’ è il comune o la città metropolitana. Il 66% delle aziende top 100 è a capitale interamente pubblico, il 20% misto, il 9% sono aziende quotate (ma spesso con una quota rilevante del capitale in mano pubblica) e solo il 4% sono imprese private. A dominare sono le aziende che hanno raccolto l’eredità delle vecchie municipalizzate, magari fondendosi tra loro a dando vita a grandi holding multiservizi che macinano fatturati miliardari. Nella classifica dei primi 147 gruppi italiani per fatturato stilata nel 2018 da Competitive Data e MonitoraItalia la prima tra le grandi multiutility pubbliche è A2A, al 56° posto, società quotata in Borsa e controllata dai comuni di Milano e Brescia (la controllata A2A Energia invece è al 115°); segue al 69° posto Iren Mercato Spa, braccio energetico della multiutility  nata dalla fusione tra le municipalizzate dei comuni di Genova, Torino e della province emiliane (anch’essa quotata); Hera Spa, nata dalla fusione delle ex municipalizzate della Romagna (ma oggi cresciuta anche fuori regione) è al 117° posto, mentre le sue controllate Hera Comm e Hera Trade sono rispettivamente all’85° e al 92° posto; la romana ACEA Energia è al 97° posto.

FIGURA 1: le principali multiutility pubbliche in cifre

La lotta per il controllo di questo settore redditizio e al contempo strategico è aspra. Imprese private e mercati finanziari hanno aperto la caccia alla gallina dalle uova d’oro approfittando di una massiccia campagna propagandistica contro la gestione pubblica in atto ormai da 30 anni. Gli enti locali – si dice – sono incapaci di far sì che le proprie aziende producano utili, salvo poi, in caso contrario, accusare quelle aziende di fare utili a danno delle imprese private. La politica, dal canto suo, in parte ha assecondato le sirene della liberalizzazione, ma perlopiù ha cercato di mantenere il controllo di questo settore per molte buone ragioni. C’è la pressione dei dipendenti e dell’opinione pubblica, i quali temono che la privatizzazione sarebbe un salto nel vuoto; c’è il fatto che queste aziende producono dividendi preziosi per enti i cui bilanci sono falcidiati dai tagli e, non ultimo, che esse rappresentano un collettore di denaro pubblico con cui foraggiare clientele tramite appalti, sponsorizzazioni e incarichi, come confermano anche le più recenti inchieste (a Legnano il sindaco leghista è nei guai per l’AMGA, azienda comunale che  fornisce gas e gestisce anche alcuni impianti sportivi). Del resto la gestione privatistica è comunque assicurata, sia perché queste aziende ormai sono enti di diritto privato (coi relativi obblighi di legge) e sia perché una quota crescente dell’attività viene data in appalto.

IREN, la più bipartisan delle multiutility

AMGA, l’ex municipalizzata che forniva gas e acqua ai genovesi, nel 2006 si fonde con AEM, l’ex azienda elettrica del comune di Torino, dando vita a Iride. Nel 2010 Iride si unisce a Enìa, la società che a sua volta aveva raggruppato l’AGAC (acqua e gas) di Reggio Emilia, l’AMPS (in origine Azienda Municipalizzata di Parma dei Servizi) e la Tesa (ex ASM, Azienda dei Servizi Municipali) di Piacenza, e così nasce IREN. Nel 2018 IREN acquisisce anche ACAM, la multiutility del Comune di La Spezia, mentre l’anno prima la giunta genovese di centrosinistra aveva cercato di cederle anche la propria azienda di igiene ambientale,  AMIU, operazione sventata dalla reazione dei lavoratori, nonostante il beneplacito del sindacato, in particolare della CGIL.

Oggi questo è forse uno dei casi più degni di attenzione nel risiko delle multiutility, perché la parte pubblica che controlla IREN comprende enti locali governati da tutte le forze politiche presenti in Parlamento e dunque è la cartina di tornasole di quelle relazioni ‘materiali’ tra i partiti di cui solitamente nessuno parla. Tra i sei soci capoluoghi di provincia infatti tre sono amministrati dal centrodestra (Genova, La Spezia e Piacenza), uno dai Cinque Stelle (Torino), uno dal PD/area Delrio (Reggio Emilia) e uno, Parma, è guidato dall’ex M5S Pizzarotti, oggi a capo di Italia in Comune e alleato dei radicali di Emma Bonino (+Europa) alle europee dopo averci provato prima con De Magistris e poi con in verdi. Ai sei capoluoghi poi si affiancano i comuni emiliani e quelli dello spezzino, ciascuno col colore politico della propria giunta (anche se con scarso peso nell’azionariato).

Come si desume dalla pagina dedicata del sito di IREN attualmente Genova è il primo azionista col 18,85% del capitale (il 23,6% in termini di diritti di voto), seguita da Torino col 13,8% (18,6%), Reggio Emilia col 6,5% (8,8%) e da Parma col 3,2% (4,3%). La Spezia e i comuni spezzini insieme pesano all’incirca per il 2%, Piacenza l’1,5% e i comuni del reggiano (senza il capoluogo) il 5,5%. Torino possiede anche un cospicuo gruzzolo di azioni risparmio (una parte l’ha venduta nel 2016 per fare cassa), a cui però non corrisponde un diritto di voto. Il resto del capitale è il cosiddetto flottante, cioè sono le azioni finite in mano agli investitori finanziari tramite la Borsa, che siano singoli cittadini o società finanziarie che rastrellano azioni per conto dei propri clienti e soci (i fondi di investimento pesano circa il 30%). Dunque la parte pubblica dell’azionariato di IREN detiene ormai meno del 50% del capitale, ma controlla quasi il 60% dei diritti di voto grazie allo strumento delle azioni a voto maggiorato. Tra i soci delle Spa infatti non vale il principio ‘una testa un voto’. Il voto è pesato, cioè si ha diritto a un voto per ogni azione che si possiede, ma le azioni maggiorate in alcune votazioni cruciali (ad esempio l’elezione degli organi societari) possono valere fino a 2. Si tratta di un bizantinismo introdotto nel 2014 per incentivare gli enti pubblici a scendere sotto il 50% senza perdere (almeno formalmente) il controllo delle proprie società partecipate.

Le grandi manovre di Genova e Torino

L’attuale assetto azionario è il frutto di alcuni recenti operazioni che hanno cambiato in modo rilevante i rapporti di forza tra i soci pubblici. Fino al 2018 infatti Genova e Torino controllavano il 33,3% di IREN tramite FSU (Finanziaria Sviluppo Utilities), controllata al 50% dai due comuni, (quota scesa al 32,67% per effetto del piccolo aumento di capitale avvenuto all’atto della fusione con ACAM). Nel 2016 l’appena eletta sindaca di Torino Chiara Appendino, per fare fronte ai problemi di bilancio, decide di dare in pegno a Intesa San Paolo le azioni ordinarie di IREN in mano al Comune di Torino, un provvedimento che in realtà era già stato messo in cantiere dall’ex sindaco Piero Fassino. In cambio Torino ottiene una rinegoziazione del mutuo che FSU aveva acceso nel 2006 con la banca per acquistare il pacchetto di controllo su Iride. Si tratta di un prestito di 230 milioni di euro con scadenza nel 2021, collegato a un contratto derivato del valore di 107 milioni, posto a garanzia del prestito e stipulato tramite Goldman Sachs. Nel 2016 mancano 5 anni e il debito da estinguere sfiora i 127 milioni. Il mutuo e il derivato vengono estinti e viene stipulato un nuovo finanziamento da 154 milioni, scadenza nel 2026, questa volta garantito dalle azioni IREN detenute da FSU per un ammontare pari ad ‘almeno il 150% il valore del debito residuo’. Per procedere ci vuole il via libera del consiglio comunale di Genova, azionista al 50% di FSU, dove all’epoca governa la giunta di centrosinistra guidata da Marco Doria, che non si oppone. Nonostante l’operazione parta dalla giunta ‘amica’ di Torino i 5 consiglieri  comunali genovesi del M5S invece si astengono perché ritengono che l’accordo favorisca la banca e penalizzi i due comuni. I dubbi dei Cinque Stelle a Genova sono condivisi dal centrodestra torinese, secondo cui avendo posticipato la scadenza del mutuo per rimborsare il prestito basterebbero i dividendi che IREN pagherà ai comuni, mentre per pagare i costi del derivato alla sindaca Appendino basterebbe vendere le azioni risparmio in possesso di Torino. In ogni caso questa vicenda finisce per spingere su rotte divergenti Genova e Torino.

Nel settembre del 2017 il nuovo sindaco di Genova Marco Bucci e la Appendino decidono di vendere il 5% delle azioni di FSU, mentre nel maggio 2018 c’è la scissione: il 50% di azioni FSU di Torino finisce in FCT, Finanziaria Città di Torino, mentre FSU diventa al 100% di Genova. I due enti di fatto hanno riacquistato la propria autonomia. Alla fine del 2018 Bucci poi improvvisamente cambia idea e non solo rinuncia a vendere il proprio 2,5%, ma comunica alla Appendino che è interessato a comprare il 2,5% di Torino. La giunta pentastellata però preferisce vendere alla Borsa (incassando una minusvalenza stimata tra i 10 e i 20 milioni di euro), un vero e proprio sgambetto a Genova. ‘A Torino si è scelto di fare speculazione finanziaria fra la borsa e la vita di tutti, Torino ha preferito la borsa: fare cassa piuttosto che fare il bene dei cittadini. Ma noi facciamo una battaglia contro il capitale di pochi’, commenta sconsolato il capogruppo di Forza Italia nel consiglio comunale genovese Mario Mascia (SecoloXIX281118). Una ventina di giorni dopo Bucci compra comunque il 2,5% di azioni sul mercato, con un esborso di 70 milioni che FSU sostiene anche grazie a un prestito di 20 milioni erogatole dal Comune. In questo modo Genova passa dal 16,33% al 18,85% del capitale.

L’ingresso di ACAM muta ulteriormente la composizione interna dell’azionariato e impone di cambiare lo statuto di IREN e di rinegoziare i vecchi patti parasociali (in scadenza) che regolano i rapporti tra gli azionisti di maggioranza. Spesso alcuni grandi azionisti di una Spa stipulano un accordo (patti parasociali o patti di sindacato) per garantirsi reciprocamente che nessuno di loro effettui operazioni tali da alterare gli equilibri societari senza il consenso degli altri (e anche per blindare il proprio controllo sulle società rispetto agli azionisti esterni al patto). Il nuovo patto parasociale, della durata di 3 anni (ma rinnovabile per altri due) rafforza ulteriormente la presa del Comune di Genova su IREN. Esso infatti prevede che le tre cariche sociali più importanti – amministratore delegato, presidente e vice – vengano decise di concerto dagli azionisti del patto, ma che, in caso di mancato accordo, sia chi detiene più azioni a decidere una delle cariche, mentre gli altri devono spartirsi le rimanenti. In pratica a Genova, Torino e all’Emilia sono garantiti 4 membri del CdA a testa (1 a La Spezia e due ai soci di minoranza) e Genova designerà l’amministratore delegato, Torino il presidente e l’Emilia il vicepresidente. L’accordo prevede anche, su richiesta di Torino, che la quota azionaria detenuta dal patto possa scendere al 35%, cioè che i soci pubblici possano liberarsi di un altro 5% delle azioni (pur mantenendo più del 50% dei voti).

Partiti in ordine sparso

Veniamo alla politica. Analizzando le scelte degli enti e delle forze politiche che vi sono rappresentate ci sono due aspetti che saltano all’occhio. Il primo è che quando si tratta di approvare il nuovo statuto e i nuovi patti parasociali nei consigli comunali i gruppi consiliari di ogni forza politica procedono in ordine sparso. A Torino il M5S vota a favore, il PD contro e la destra non partecipa. A Reggio Emilia il PD approva, il M5S disapprova e la destra si astiene. Infine a Genova, dove la destra governa, vota a favore, mentre il M5S è contrario ed è il PD ad astenersi.

Il secondo aspetto emerge dalla lista dei candidati al CdA espressi dai maggiori azionisti. In generale i sindaci si comportano secondo consuetudine, indicando nominativi ‘di area’. Reggio Emilia ad esempio indica, tra gli altri, Moris Ferretti, consigliere uscente e probabile futuro vicepresidente, uomo delle cooperative, ex consigliere comunale DS e figlio dell’ex vicesindaco di Reggio Emilia e Francesca Grasselli, imprenditrice (ma secondo la Gazzetta di Reggio ‘in area Delrio’). L’amministrazione di centrodestra di Piacenza indica Gianluca Miccoli, di Fratelli d’Italia. Dalla Liguria arrivano i nomi di Renata Oliveri, in passato assessora del centrodestra, Pietro Paolo Giampellegrini, segretario generale della Regione Liguria guidata dal governatore forzista Toti, Cristiano Lavaggi, ex sindacalista UIL e candidato nelle liste di Forza Italia alle ultime regionali.

Chiara Appendino fa eccezione. La sindaca infatti perora la riconferma a presidente di Paolo Peveraro, ex assessore nelle giunte a guida PD di Sergio Chiamparino e Mercedes Bresso, e solo alla fine è costretta dallo stesso M5S a scaricarlo e a candidare al suo posto Renato Boero,  manager AMSA/A2A prima con Letizia Moratti e poi con Giuliano Pisapia. Tra gli altri candidati di Torino figura anche Sonia Maria Margherita Cantoni, che il sito torinese LoSpiffero, espressione di una delle correnti del PD torinese descrive come ‘una manager lombarda, a lungo legata al sistema politico diessino e all’ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati. Dal 1999 al 2001 è stata direttore di un dipartimento dell’Agenzia nazionale per l’Ambiente, durante il governo di centrosinistra presieduto da Massimo D’Alema, poi è stata assessore a Sesto e, dal 2005 al 2011, direttore dell’Agenzia regionale per la protezione della Regione Toscana, allora guidata da Claudio Martini (Ulivo-PD). Quando Giuliano Pisapia diventa sindaco di Milano, strappando al centrodestra il capoluogo lombardo, Cantoni torna in patria con la carica di presidente dell’Amsa, società del gruppo’ (LoSpiffero190419). Nello stesso articolo LoSpiffero osserva a proposito di Boero: ‘Era vicino al centrosinistra, molto stimato da qualche signore delle tessere PD, ora pare convertito sulla via della Damasco grillina, magari dalle parti di Piazza San Babila, dove ha sede la Casaleggio Associati’.

Centrodestra contro asse PD-M5S?

Trovare una chiave di lettura politica di questi tempi non è semplice, anche perché la frammentazione degli interessi all’interno degli stessi partiti politici, formalmente partiti nazionali ma in realtà ormai accrocchi di correnti e comitati elettorali locali, rende sempre più complesso trovare il bandolo della matassa. Tuttavia è possibile provare a mettere insieme alcune tessere di un puzzle intricatissimo.

Nel precedente ciclo amministrativo, quello che vedeva il centrosinistra saldamente al potere a Genova, Torino, nella ‘rossa Emilia’ e nelle rispettive regioni e Pisapia al governo di Milano in un rapporto non particolarmente conflittuale col leghista ‘moderato’ Maroni, si faceva strada il progetto di un’aggregazione tra IREN e A2A, che avrebbe portato alla creazione di una grande multiutility del nord-ovest, per qualcuno il primo passo di un processo che avrebbe dovuto coinvolgere anche Hera e ACEA. Un progetto che da una parte creerebbe la massa critica per affrontare i mercati su un piede di parità rispetto ai grandi player internazionali, dall’altra ridurrebbe l’influenza della politica su queste aziende, accentuandone ulteriormente la gestione manageriale. Aldilà delle intenzioni soggettive è un disegno che riflette una tendenza materiale alla concentrazione del capitale che investe l’intera economia e la cui finalità razionalizzatrice aveva trovato una sponda politica nella spending review di Carlo Cottarelli (L’Espresso180914) e, in forma più aperta al compromesso, nel successivo decreto Madia.

Il ciclone politico abbattutosi sul centrosinistra a partire dal 2012, con la vittoria del M5S prima a Parma, poi a Roma e a Torino e la vittoria del centrodestra alle regionali liguri e in tradizionali roccaforti del PD come Genova, La Spezia e Piacenza, ha completamente capovolto i rapporti di forza tra le maggiori forze politiche (e, indirettamente, tra le lobby che esse rappresentano). Il PD ha mantenuto il controllo di Milano e di Reggio Emilia, il 26 maggio ha perso anche il Piemonte e in generale è stato fortemente ridimensionato, per cui ha adottato una tattica ragionevole: provare a condizionare dall’esterno le decisioni della forza politica più permeabile alle proprie istanze: il M5S. Il suo cavallo di Troia è Torino, dove Chiara Appendino, a differenza della Raggi a Roma, è espressione di una parte della vecchia borghesia confindustriale tradizionalmente legata al PD, che nel 2016 ha votato M5S più per dare un segnale a Fassino che per convinzione. Il patto Chiamparino-Appendino, che ha salvaguardato la presa del PD sulle maggiori partecipate del Comune di Torino mantenendo al timone manager legati al presidente della Regione Piemonte e al suo partito è confermato da più di una scelta amministrativa (PuntoCritico090318, PuntoCritico120419).

Torino del resto non rappresenta un caso isolato. Il M5S, da poco al potere, non ha esperienza di gestione di grandi aziende né dispone di propri manager di riferimento e dunque si è affidato o a personaggi in cerca d’autore o a chi in passato oltre a maturare un’esperienza si è munito delle indispensabili aderenze politiche. Ed è proprio attraverso questo canale che l’influenza delle lobby tradizionalmente legate al PD si è fatta sentire. L’arrivo a Roma di personaggi provenienti dall’entourage del centrosinistra nelle amministrazioni socie di IREN dopo la vittoria di Virginia Raggi la dice lunga. Da Genova provengono l’ex dg del Comune di Genova, Franco Giampaoletti, che assume lo stesso incarico in Roma Capitale e Luca Lanzalone, che per la giunta di Marco Doria (e IREN) aveva curato la fallita fusione tra IREN e AMIU, prima di transitare per l’amministrazione a cinque stelle di Livorno e infine approdare alla presidenza di ACEA ed essere arrestato nell’ambito dell’inchiesta sullo stadio della Roma. Da Reggio Emilia arrivano Pinuccia Montanari, assessora all’ambiente dal 2004 al 2009 con l’allora sindaco Graziano Delrio e assessora ai parchi e alla decrescita dal 2009 al 2012 a Genova con la sindaca PD Marta Vincenzi e infine responsabile dell’ambiente nella giunta Raggi fino a pochi mesi fa e Lorenzo Bagnacani, nominato ai vertici di AMA dopo essere stato presidente di IREN Acqua Gas, vicepresidente di IREN e presidente esecutivo di AMIAT (omologa torinese di AMA). In alcuni casi può trattarsi di manager conquistati dalle idee del M5S o più semplicemente ‘in cerca di un lavoro’. Ma, come succede a Torino, il punto è che si tratta di manager targati PD che continuano a fare le stesse cose che facevano quando a dirigerli era il PD.

L’arrocco del centrodestra

In questo quadro il centrodestra, fino a prima della vittoria piemontese, appariva isolato, con un unico punto di forza: la Liguria, dove controlla la regione e tutti i capoluoghi di provincia, incluse due città-socie IREN come Genova e La Spezia. Un isolamento che salta tanto più all’occhio vista l’oggettiva convergenza strategica di M5S e centrosinistra, non solo a Torino. E anche se la GazzettadiReggio100917 sembra contraddire questa tesi evocando un ‘asse Parma-Reggio’ contrapposto all’alleanza Bucci-Appendino, il SecoloXIX211117 la conferma riferendo che ‘Alcuni tam tam indiscreti segnalano iniziative del sindaco Appendino per verificare la possibilità di tessere alleanze con i sindaci di Parma e di Reggio Emilia che indebolirebbero, nei futuri assetti della multiutility, il comune di Genova’. In ogni caso, che si tratti di una mossa difensiva più legata alla difesa di interessi locali o invece di un tassello in una strategia nazionale volta a contrastare l’oggettiva convergenza di M5S e centrosinistra, a un certo punto, dopo le elezioni del 4 maggio e la formazione del governo giallo-verde, Bucci decide di non vendere il 2,5% di azioni IREN in mano a FSU e anzi di chiedere a Torino di vendergli il suo 2,5%. Ma Torino, piuttosto che vendere a un ente pubblico preferisce rivolgersi a operatori di Borsa privati, alla faccia di tanta retorica sui ‘beni comuni’. Contemporaneamente c’è l’ingresso di La Spezia tra gli azionisti, poca roba in termini di azionariato, ben di più in termini di peso economico, politico e sociale (è la seconda città ligure e un polo industriale e militare).

Il sindaco di Genova non si limita a diventare primo azionista di IREN, ma modifica lo statuto della finanziaria del comune FSU, trasformandola in una società che potrebbe assumere il controllo di tutte le partecipazioni strategiche del comune di Genova in un’ottica di gestione in house. Bucci in realtà, aldilà di formule generiche e talvolta contraddittorie, non ha mai spiegato la propria strategia, trincerandosi dietro il problema delle possibili conseguenze giuridiche della divulgazione di informazioni sensibili relative a società quotate. Ma la sua mossa ha tutto l’aspetto di un arrocco per difendere le prerogative del comune rispetto ai consigli di amministrazione delle sue aziende. Sia chiaro: la posizione del sindaco di Genova non va letta come espressione di una visione ostile alle privatizzazioni e al mercato. Bucci ha un passato da manager e ha lavorato per grandi gruppi internazionali. Lo ha dimostrato privatizzando le farmacie comunali e aprendo ulteriormente ai privati il settore delle manutenzioni cittadine. Così come nell’ambito dell’igiene ambientale ha chiuso (temporaneamente) la partita della fusione IREN-AMIU, senza però fornire alla propria aziende dei rifiuti le risorse necessarie a rilanciarla.

In ogni  caso le scelte dell’amministrazione genovese sono obiettivamente d’intralcio a una futura aggregazione di multiutility del nord guidata politicamente dal centrosinistra (ma sotto il controllo dei mercati finanziari), ma allo stesso tempo potrebbero determinare esiti diversi e diametralmente opposti, fino a rilanciare i processi di fusione, in un quadro politico di diverso segno. La recente vittoria del centrodestra in Piemonte, con la conseguente rottura dell’asse PD-M5S a Torino, apre prospettive interessanti. In quest’ottica anche la vicenda AMA a Roma, dove la recente nomina del nuovo gruppo dirigente dovrebbe mettere fine allo scontro tra Comune e CdA sul bilancio, potrebbe comportare sviluppi interessanti. C’è chi ipotizza che col bilancio 2018 di AMA che si chiuderà presumibilmente in rosso la Raggi potrebbe avviarne la cessione ad ACEA.

Quel che è certo è che la retorica della gestione manageriale, con cui si è favorito, in modi diversi, la progressiva liberalizzazione del settore cedendone quote consistenti al mercato, non ha matenuto le promesse fatte. Il servizio è peggiorato, le tariffe sono aumentate, le condizioni di lavoro e l’occupazione sono in costante declino e la aziende sono gravate da una messe di debiti imponente. L’unica cosa che è aumentata sono i profitti a breve termine. Nell’iperattivismo della politica però tutto questo non sembra rivestire particolare interesse.

L’inchiesta è tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info del 14 giugno.

Su questo argomento vedi anche l’intervista a Francesco Fantuzzi, presidente del comitato interprovinciale piccoli azionisti di IREN e l’intervista a Maurizio Rimassa,  responsabile dell’intervento sindacale dell’Unione Sindacale di Base tra i lavoratori di IREN a Genova.

TAG: A2A, Acea, chiara appendino, Francesco Fantuzzi, Hera, IREN, Marco Bucci, Maurizio Rimassa, multiutility
CAT: Partiti e politici

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