Senegalese, camerata, espulso dal partito. Storia di Paolo Diop

20 Gennaio 2021

La sera del 14 aprile 2018, un sabato, Talla Diop, detto Paolo, è in giro sul lungomare nord di Civitanova Marche con la sua fidanzata Francesca. Sono appena usciti da uno dei locali affacciati sulla spiaggia. Una cenetta a due a poche settimane dal matrimonio, in programma per l’estate. Passeggiando, la coppia si imbatte in un gruppetto di giovane decisamente su di giri. Uno sguardo di troppo, forse. O forse assolutamente niente. Storie del genere non seguono mai i rettilinei della razionalità: si sa come finiscono, ma difficilmente si capisce come cominciano. Fatto sta che, nell’aria che sa di alcol a buon mercato, cominciano a volare insulti.
«Sporco negro!», dice un ragazzo.
E giù botte.

Racconterà poi Diop a un giornale locale: «È stato un momento, un fulmine di violenza. Mi ha spinto e colpito, ma di quanto accaduto a me non importa. Non tollero in alcun modo, però, che si alzino le mani su una donna e andrò fino in fondo a questa vicenda. Quell’uomo ha colpito anche la mia fidanzata». E poi: «Non si può vivere così. C’è un clima di violenza che si alimenta con il lassismo delle istituzioni. Non è solo razzismo, è degenerazione sociale. Non è normale che esci una sera a cena con la tua fidanzata e torni a casa riempito di insulti o, come in questo caso, con i lividi di una vera e propria aggressione».

Due mesi prima di questi fatti, a trenta chilometri di distanza, Luca Traini aveva passato una mattinata ad andare in giro per le strade di Macerata a bordo della sua Alfa Romeo nera con una pistola in pugno a sparare su tutte le persone dalla pelle nera che incontrava davanti a sé. Ne ferì sei, in quello che a tutti gli effetti è stato l’ultimo attentato terroristico compiuto su suolo italiano. Traini, condannato a dodici anni per strage aggravata dall’odio razziale in primo e in secondo grado, era stato candidato dalla Lega alle comunali di un paesino della provincia. Zero preferenze raccolte, per la cronaca e per la storia.

Sempre nelle Marche, il 5 luglio del 2016, a Fermo, il nigeriano Emmanuel Chidi Namdi trovò la morte dopo essere stato aggredito da Amedeo Mancini, ultras della squadra di calcio locale e simpatizzante di Casapound. Due brutte storie dalla periferia dell’impero. Senza generalizzare troppo, sintomi di un qualcosa che cova in una terra che si vorrebbe placida per assioma, tranquilla ai limiti dell’afasia, dove se accade qualcosa di male si pensa prima alla propria reputazione e poi alle conseguenze. In una parola: la provincia.

Su questi due fatti, comunque, Paolo Diop, senegalese, classe 1988, ha delle idee molto precise. Su Traini, intervistato a caldo da Federica Nardi per Cronache Maceratesi, sostiene: «Gesto sicuramente da condannare. Sono vicino alle persone ferite, le andrò a trovare in ospedale. Spero che questa situazione si calmi e che possiamo tornare alla normalità che questa città merita. Bisogna stoppare le violenze, fermare il tono politico per un po’ e tornare tutti a ragionare in maniera lucida». Il giudizio su Emmanuel è uscito invece sulle colonne del Giornale: «Quello italiano è un popolo che viene condotto al razzismo. È esausto, non ce la fa più. La sinistra non fa che alimentare le tensioni sociali che sfociano in questi fatti. Sono loro ad ucciso, tra virgolette, con questa politica migratoria che alimenta la guerra tra poveri. Che alimenta l’odio. È la sinistra ad aver creato il razzismo».

Diop è arrivato in Italia che era un bambino. Crescendo ha scoperto la passione per la politica: Casapound, poi il Movimento Nazionale per la Sovranità di Gianni Alemanno e infine Fratelli d’Italia, di cui è stato anche responsabile nazionale per l’immigrazione. «Io sono la prova vivente che la destra non è razzista», dice lui in diverse interviste.

Nel 2015 Diop aveva già denunciato di aver subito un’aggressione. Un suo connazionale, buttafuori di professione, lo avrebbe colpito con un pugno al volto dopo avergli detto: «Sostieni Salvini? Vieni che ti sistemo io…». I giornali, soprattutto quelli di destra, ne parlarono un po’, generando le solite migliaia di commenti di tenore non proprio elegante su Facebook.

Una volta, su Twitter, Diop si è vantato di aver sdoganato la Lega: «Fui il primo nero a stringere la mano a Matteo Salvini, aprii un varco». Scrive Libero su una sua comparsata televisiva: «Il suo intervento a Omnibus La7 per chiedere uno stop all’immigrazione clandestina (“Oggi non c’è lavoro, non ci sono le condizioni per accogliere tutti”) fece scalpore e mise in crisi molti telespettatori di sinistra». La giornalista Daniela Preziosi, presente in studio in quel dibattito del gennaio 2018, non era d’accordo con lui e venne bollata come razzista. «Fu un giochino astuto», ricorda lei.

La politica, dicono i saggi, è fatta di pasque e di quaresime. Diop, dopo aver ben occupato diversi palcoscenici dell’eterna campagna elettorale italiana, quando però si è trattato di farsi mettere in lista non ha mai avuto particolare fortuna. Nel 2015 ci provò alle comunali di Macerata con Sovranità – spin off di Casapound nato per spalleggiare Salvini e presto tramontato –, raccolse 23 preferenze e si piazzò al secondo posto della lista che portò 187 voti e lo 0.95% alla perdente coalizione di centrodestra guidata da Deborah Pantana.

Il 2020 sembrava l’anno buono. Che Macerata avrebbe voltato a destra era quasi una certezza da prima delle elezioni comunali e, benché la parte del leone fosse già stata assegnata alla Lega, quelli di Fratelli d’Italia erano ragionevolmente sicuri di raccogliere un buon risultato. E Paolo Diop con loro: insomma, è un dirigente nazionale del partito, un posto in lista dovrebbe trovarlo e i militanti dovrebbero pure spingere per lui in campagna elettorale. Funzionano così le cose, di solito. Ma non in questo caso. Paolo Diop non trova spazio. Le elezioni, comunque, vanno bene: la destra stravince, Fratelli d’Italia elegge quattro consiglieri, entra in giunta, occupa postazioni che fino a pochi anni prima sembravano irraggiungibili.

Diop aveva smesso di parlare in pubblico qualche settimana prima del trionfo. Non una traccia sui social network, nessuna notizia su di lui sulle gazzette locali, anche se si capiva benissimo che il ragazzo fosse rimasto molto insoddisfatto dalla piega che avevano preso le cose. «Trombato», si dice in questi casi. Cose che possono accadere a trent’anni, quando ci si affaccia nella foresta della politica locale e le posizioni di potere non si scalano tanto con la presenza mediatica quanto con una fitta rete di conoscenze e legami personali.

L’altro giorno, però, Diop ha finalmente rotto il silenzio e ha raccontato una storia che ne ricorda decine di altre: gelosie, interessi, bruciature, litigi. D’altra parte la strada per il tavolo dei grandi è spesso e volentieri minato. «Sono stato espulso a settembre, appena dopo le elezioni», racconta Diop. Segue una spiegazione politicista che più politicista ormai è raro trovarne in giro: «Voglio sottolineare che sono stato espulso da Renna, il più basso in grado, che fino a ieri non era nessuno in Fratelli d’Italia, quando io ero referente nazionale». Per paradosso, spiegazioni del genere di solito arrivano dagli ambienti piccoloburocratici della giovanile del Pd, dove molti pensano sul serio che un posto in dirigenza valga più delle centinaia di preferenze che alcuni hanno in dote anche senza aver mai messo piede in una sede di partito. Il citato Paolo Renna, infatti, a settembre è stato il primo degli eletti a Macerata. «Mi dispiace di aver contribuito a far eleggere uno come lui – insiste Diop –, lo scontento verso Renna nel partito è grande. Sono in tanti a pensarla come me, anche se non lo dicono. Si è auto eletto responsabile di Macerata, ma non ho visto nessun foglio dove c’è scritto qualcosa del genere».

La trama, a questo punto, si infittisce: secondo Diop il partito maceratese sarebbe a un passo dal commissariamento, benché reduce da clamorosi risultati sia alle comunali sia alle regionali, e galleggia stabilmente al 20% dopo aver decuplicato i consensi in cinque anni: altro che commissario, chi ha progettato una cosa del genere se non è già finito in Parlamento prima o poi ci arriverà. Ad ogni modo, gli altri, il famigerato Renna su tutti, non se ne stanno con le mani in mano a farsi schiaffeggiare: l’accusa per Diop è di aver fatto votare a sinistra, la prova sarebbero dei messaggi audio di Whatsapp in cui, effettivamente, il ragazzo consigliava di scrivere sulla scheda nomi di noti candidati del centrosinistra. Comunque quelli di Fratelli d’Italia negano di averlo espulso: «La questione è più complessa. In ogni caso lo aspettiamo a braccia aperte». O forse tese, ma lasciamo stare i dettagli.

Il finale è aperto. Paolo Diop è stato soltanto una meteora? Quella dell’africano convintamente di destra che nega l’esistenza del razzismo (anzi, che attribuisce il fenomeno alla sinistra) è una favola servita soltanto a ripulire l’immagine della destra sovranista o la sua ascesa è frutto di talento politico puro? E poi cosa è successo? Diop è stato fermato dalla sete di potere dei signori locali delle preferenze o, più banalmente, una figura come la sua non serve più perché tanto ormai l’assalto alla diligenza è finito e il potere è ormai conquistato? In tempo di pace, vera o presunta, servono ancora gli eroi di guerra?

La verità, come sempre in queste storie, c’è e non c’è.

TAG: destra, Gianni Alemanno, giorgia meloni, Macerata, matteo salvini, Paolo Diop, razzismo
CAT: Partiti e politici

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