Un partito e due piazze: che cos’è il PD?
Un amico che vive da qualche anno a NY mi scrive per chiedere lumi su cosa succede in Italia: perché si discute tanto della Leopolda e della manifestazione della CGIL? Non riesce a capire cosa ci sia di nuovo. Non sapevo aiutarlo molto, però il suo interrogativo mi ha costretto a riflettere e a pormi altre domande.
Forse la vera novità è che ora la partita si gioca tutta da una parte sola: il PD fa il governo e l’opposizione, fa la destra e la sinistra, è progressista e conservatore insieme (scegliete voi come attribuire le etichette alle varie parti), tra un po’ sarà pure maschio e femmina, luce e buio, nuovo e vecchio al tempo stesso. Alcune new entry lo qualificano evocando Jovanotti, e non senza un po’ di autoironia, come una ‘grande chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa’.
L’immagine della ‘grande chiesa’ mi disturba non poco, e non per il riferimento pop. Mi riservo di ritornarci in futuro. Per il momento mi preme ragionare su una questione: fino a che punto si possono tenere insieme Che Guevara e Madre Teresa, fino a che punto le divisioni interne al PD sono fisiologiche? Negli anni scorsi la messa in scena dello scontro dentro il partito è stata essenziale per far emergere la figura di Renzi sul piano mediatico prima ancora che politico. L’inventore della ‘rottamazione’ si è nutrito di quel conflitto, lo ha alimentato e lo ha cavalcato fino a farne una bandiera. L’esasperazione e la teatralizzazione degli scontri interni al PD, oltre a favorire l’ascesa di Renzi, hanno anche avuto un effetto al di fuori del partito; sono serviti, in qualche misura, a mettere in ombra gli altri soggetti politici. Le parabole discendenti del berlusconismo e della sinistra radicale hanno indubbiamente altre cause, ma non si può non notare che l’accentrarsi del dibattito mediatico sulle divisioni intestine del PD ha contribuito – in un momento in cui gli altri soggetti erano particolarmente fragili – ad accelerare il declino degli altri attori politici. Insomma, uno dei miracoli di Renzi è stato quello di trasformare, paradossalmente, in una carta vincente la litigiosità interna che ha lungamente afflitto il partito. Così Renzi non ha solo conquistato il PD, ha contribuito ad accelerare i processi di sfaldamento degli equilibri politici che hanno retto il sistema negli ultimi vent’anni. Si è dunque trovato a capo di un partito nato in un sistema bipolare, più o meno compiuto, quando tale sistema era ormai al tramonto.
La strategia renziana ha anche consentito di superare l’antiberlusconismo che per lunghi anni è stato il collante di tanta parte della sinistra, e per molti versi la vera spinta alla nascita del PD. Il riorientarsi del conflitto all’interno, e non più verso il nemico esterno, ha contribuito a togliere centralità e rilevanza alla figura ormai declinante di Berlusconi. Confermando però come il PD sia una creatura dall’identità incerta, che tende a definirsi primariamente in opposizione e per contrasto a qualcosa di altro. L’impressione è che il conflitto sia non incidentale ma necessario, non il frutto di visioni opposte e inconciliabili – davvero non ci sono margini di trattativa col sindacato? – quanto un bisogno e una necessità. Sì dirà che questa è una regola che funziona sempre, le identità – incluse quelle politiche – si declinano sempre contro qualcosa o qualcuno. L’impressione però è che qui abbiamo superato la condizione fisiologica per entrare di slancio nella patologia. Senza nemici da sfidare e irridere Renzi sembra non esistere. Lo steso però si potrebbe dire dell’altra anima del PD, quella che ha snobbato la Leopolda e si è trovata in piazza con la CGIL; anch’essa ha disperato bisogno della teatralizzazione del conflitto per confermare di esistere, di essere presente nella politica spettacolarizzata, per occupare uno spazio che ne garantisca la sopravvivenza. Le due piazze contrapposte hanno messo in scena le laceranti le divisioni dentro un’unica area politica, sono una testimonianza di come quel partito si nutra di conflitti e – nel contempo – come esso così riesca a confermare il proprio posto al centro del sistema. Insomma, la contrapposizione su questioni largamente simboliche consente al PD di affermare un sostanziale dominio sulla politica italiana, relegando gli altri soggetti al ruolo di cheerleaders poste ai margini dello scontro. Ma quanto può durare un partito – e un’area politica più vasta, che va al di là della struttura-partito e investe i simpatizzanti e i potenziali elettori del Pd – con un così alto tasso di conflittualità? Renzi stesso negli ultimi giorni sembra aver dato segnali di preoccupazione di fronte all’esasperarsi del conflitto.
Dobbiamo leggere quegli scontri, reali e simbolici, come testimonianza dell’ormai raggiunta egemonia del PD sullo scenario politico nazionale? Sono la testimonianza tangibile di un trionfo ormai irresistibile da parte di un partito che ormai può permettersi di giocare tutte le parti in commedia? Oppure no? È stato superato il livello di guardia? Le manganellate agli operai della AST rappresentano un momento di svolta e di rottura dentro la sinistra italiana? Fino a quando il PD renziano potrà reggere questi livelli di tensione? In gioco non sono solo le scelte politiche contingenti ma il rapporto con una ampia tradizione, con la simbologia e l’immaginario della sinistra. Alla fine la questione riguarda l’essenza stessa, o se vogliamo l’anima, del partito ora guidato da Renzi.
La domanda da porsi dunque non è cosa è successo a Roma e a Firenze ma: che cos’è (e cosa sarà) il PD? Rappresenta il punto di arrivo di un lungo percorso di avvicinamento di tradizioni politiche diverse, ma con alcuni punti in comune e comunque saldamente ancorate nella vasta e magmatica galassia della sinistra, oppure era solo un agglomerato artificioso, una formula necessaria per rispondere alle sfide del berlusconismo? Come tanti ho ritenuto per lungo tempo che PD e PDL fossero in qualche misura interdipendenti. Non in chiave grillina, non per via di oscure trame consociative, ma semplicemente perché occupavano spazi contrapposti e nel contempo in qualche misura complementari nel sistema politico e nell’immaginario che lo alimentava. La domanda ora è se il Pd può sopravvivere davvero al collasso del sistema in cui è nato. Mantenere in equilibrio un partito a dispetto delle divisioni interne è possibile finché c’è un collante adeguato, che può anche essere rappresentato dal nemico esterno. Ora però che il nemico esterno sembra eclissarsi i conflitti interni si fanno più violenti. Viene il sospetto che forse ci troviamo di fronte a un ennesimo tornante della politica italiana; può essere che a breve assisteremo, un po’ come accadde 20 anni or sono, alla dissoluzione dei simboli e delle le strutture partitiche che ci sono divenute familiari e che hanno caratterizzato questa cosiddetta Seconda Repubblica? Renzi ha rottamato solo una classe dirigente della sinistra o segna la fine di una stagione, la fine del PD e del PDL, e l’avvio di uno scenario nuovo di cui ancora si stentano a riconoscere i contorni?
2 Commenti
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La descrizione dell’ala del PD ora minoritaria è esemplare. Probabilmente il partito si sta rendendo conto che, per l’appunto non avendo più un nemico da combattere, le anime che lo compongono possono cozzare su vari fronti. Personalmente, se devo dirla tutta, l’idea che il superamento dei partiti come li abbiamo conosciuti fino ad oggi porti ad un unico “contenitore” fa giusto un attimo rabbrividire.
per chiarezza: non auspico né prevedo che ci sia un unico contenitore.
mi interrogo sulla possibilità che il sistema collassi a breve, per effetto dell’esplosione del pd (le altre componenti del sistema sono già impose o in via di disfacimento da un po’).
cosa seguirebbe è imprevedibile allo stato, ma mi pare difficile che un partito possa mantenere al suo interno un così alto tasso di conflittualità in assenza di una credibile minaccia esterna.