Una scellerata scissione di Palazzo. Contraccolpi nazionali e locali

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17 Settembre 2019

La gestazione di questo articolo non è stata affatto agevole. Fino all’ultima versione s’imponeva il condizionale, accompagnato da una buona dose di speranza, tenace speranza.

Chi scrive non ha animo neutrale, non guarda dalla finestra le vicende politiche; chi scrive ha da tempo passione politica e appartenenza, che denuncio sin da ora a beneficio del lettore.

Una premessa s’impone: non c’è niente da festeggiare, per nessuno, per chi va e per chi resta. In politica non esistono separazioni consensuali e abbandoni non traumatici.

Per dirla con Gentiloni, il Partito Democratico non è un episodio, un accidente nella storia di questo Paese. Il PD ha ereditato e interpretato una storia politica lunghissima e ha tutti i requisiti per continuare a farlo. Usando l’espressione di un caro amico con molta più esperienza di chi scrive: se Moro non fosse stato assassinato e Berlinguer non fosse morto come è morto, il PD sarebbe nato molti anni prima. Le radici di questa grande e duratura comunità politica sono assai più profonde e radicate nella cultura, nella storia e nelle vicende sociali della Repubblica di quanto la nube alzata dal turbinio di cronache e tweet ci lasci intravedere.

I valori che poco più di dieci anni fa ne animarono la costruzione, le idee del riformismo, della socialdemocrazia, del cristianesimo e del liberalismo sociale non appartengono al PD per concessione divina, perché questi se ne faccia esclusivo detentore, beninteso. Ma hanno forza e vita più di quanta possano averne altrove perché nel PD si animano grazie al pluralismo di una grande forza politica a vocazione maggioritaria che, con i limiti enormi di qualsiasi vicenda umana, può contare su esperienze e competenze diffuse nel Paese, su classi dirigenti che, quantunque fallaci, innervano la Repubblica. Probabilmente la maggiore virtù del Partito Democratico è proprio la sua contendibilità, la vocazione genetica ad essere aperto e inclusivo e per questo in grado e in dovere di adattarsi, ristrutturarsi, riformarsi grazie alla molteplicità delle forze che muovendosi non univocamente gli consentono di attraversare la storia repubblicana.

Il PD di Zingaretti è diverso da quello di Renzi e da quello di Bersani e, ci auguriamo, diverso da quello a cui dovrà lavorare chi ha forza e coraggio.

Per tutte queste ragioni, la scelta di andare via, giustificata (assai malamente mediante una sgangherata e ormai celebre intervista a Repubblica) sventolando l’esigenza di parlare ad “uno spazio enorme per una politica diversa”, è incomprensibile. Anzi, proprio questa esigenza che tutti avvertiamo come prioritaria, avrebbe ottenuto risposte credibili e durature se Renzi avesse continuato ad agire nel Partito Democratico.

In tutta questa storia, sullo sfondo, aleggia una pia illusione: i renziani escono pensando di portarsi via la patente per la rappresentanza dei valori che animano e hanno animato, me compreso, molti dei sostenitori dell’ex Presidente del Consiglio. Le spinte del liberalismo sociale, l’europeismo, i principi del cristianesimo sociale restano tutti, ma proprio tutti, nel Partito Democratico.

Consentitemi, ora, qualche considerazione sparsa, sicuramente meritevole di maggiore approfondimento, che viene da una certa dimestichezza con gli ambienti del Partito Democratico. Consentitemi, insomma pochi appunti a margine, in ordine a questioni di cronaca politica:

1.      Renzi abbandona il PD nel momento in cui la generazione più giovane di questo Partito, nativa democratica, formatasi anche negli anni del suo Governo, ha la forza e la credibilità per ottenere lo spazio che merita. Renzi la disperde, la caccia un passo indietro, la divide. In due  parole: la indebolisce.

2.      È singolare, davvero singolare, che senza battere ciglio, due o tre Ministri della Repubblica abbiano accettato di farsi indicare dal proprio partito sapendo che di lì a pochi giorni avrebbero militato tra le fila di un altro movimento. Se è coerenza e lealtà politica questa…

3.      Renzi dice di volere il maggioritario ma annuncia che se Di Maio e Zingaretti si accordassero per il proporzionale lui non si opporrebbe. Chapeau! Non più di un paio di anni fa, eravamo assiepati in un teatro di Ercolano, dal cui palco l’allora Presidente del Consiglio predicava il verbo di una legge elettorale che ci consentisse la sera stessa delle elezioni di conoscerne il vincitore. Oggi va bene anche il proporzionale. Renzi sa che, senza proporzionale, per il suo partito, non si cantano messe.

4.      Un’ultimissima considerazione, a mio avviso la più scottante. La fuoriuscita del leader sta producendo e produrrà cospicui riverberi a livello locale. Gli eletti e i dirigenti vicini all’ex Presidente del Consiglio si sono armati, si stanno armando, per l’abbandono. Nella narrazione giornalistica di queste ore, ipnotizzata dalle manovre che si consumano sul proscenio, è assente (per ora) il contraccolpo forse maggiore, il vero colpo di coda che si prepara dietro le quinte.

Sono tantissime le realtà territoriali, amministrative e non, in cui la fuoriuscita è in potenza di produrre effetti devastanti, su equilibri sovente già fragili, imperniati su dinamiche e rapporti personali, ben lontani dalle compassate interviste in cui si denuncia la scissione come un fatto, tutto sommato, sopportabile senza grandi traumi. Bene, sappiate che non è così. I contraccolpi saranno duri, forse durissimi. Non è un caso che tra i renziani della prima, seconda e terza ora, coloro che si sono schierati contro la fuoriuscita sono proprio le donne e gli uomini che hanno maturato o gestiscono esperienze di governo del territorio: quando si va via, è difficile sedersi allo stesso tavolo per continuare ad amministrare insieme.

 

Questo scisma, che a me sembra più una scossa, per parafrasare il celebre show televisivo, non regge. Non è animato da valori, non si nutre di sostanza politica, non è nato tra la gente. Siamo di fronte ad una manovra tutta personale e personalistica, agitata come la liberazione di una generazione di cui Renzi si autoproclama interprete e portavoce. Realizzata sventolando lo spettro di un ritorno dei Ds, davanti a gente che i Ds neppure li ha mai vissuti, in un momento in cui i Democratici di Sinistra e la Margherita sono superati dalla storia e nessuno, credetemi, proprio nessuno intende riesumarli.

Quello di Renzi è un atto scellerato, compiuto nel momento di massimo gradimento del Partito Democratico tra le fasce più giovani, al tempo del Segretario più ecumenico che chi ha memoria politica ricordi.

Al PD spetta il compito di sapersi riformare, valorizzando le differenze interne, farle prosperare per garantire quell’alternanza di cui Renzi stesso ha beneficiato per diventare Renzi.

A Renzi, l’augurio di non fare politicamente la fine della Daenerys del Trono di Spade che, pur vittoriosa, in sella al suo drago distrugge tutto e tutti, senza distinguere il bene dal male, perché accecata da sé stessa e dal potere.

 

 

 

 

 

TAG: Matteo Renzi, partito democratico
CAT: Partiti e politici

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