Università gratuita: perché è sbagliato, e comunque non possiamo permettercelo
Domenica mattina Piero Grasso, alla conferenza programmatica di Liberi ed Uguali, ha lanciato la proposta di azzerare le tasse universitarie per tutti. La proposta ha avuto l’indubbio merito di portare al centro della discussione il diritto allo studio, purtroppo però la necessità di avere uno slogan elettorale e la successiva sintesi giornalistica hanno dato il via a commenti da tifosi piuttosto che a riflessioni circostanziate.
Di fronte alle reazioni stupite e turbate di molti potenziali elettori sono arrivate le precisazioni, LeU immagina un graduale aumento delle fasce di esenzione dal pagamento fino ad arrivare ad un’università gratuita per tutti e finanziata attraverso la fiscalità generale, che sarà essa stessa resa più progressiva.
In un mondo ideale fatto di avanzi di bilancio, studenti e docenti virtuosi, la proposta potrebbe avere un suo senso ma distaccarsi troppo dalla realtà può rivelarsi un esercizio pericoloso. La ratio della gratuità risiede in un’estensione dell’idea che l’istruzione dei cittadini sia un bene pubblico a cui lo stato debba provvedere (la nostra costituzione prescrive istruzione obbligatoria gratuita per otto anni e sostegno agli studi superiori infatti), lo stato investirebbe nell’acquisizione di capitale umano dei cittadini che si ripagherebbe con una maggior crescita economica e un maggior gettito fiscale.
Va innanzitutto ricordato che l’università italiana è già in larga parte finanziata dallo stato e quindi dalla fiscalità generale, le tasse universitarie pagate dagli studenti coprono infatti circa il 30% dei bilanci dei nostri atenei. Quindi i contribuenti italiani di fatto si sobbarcano buona parte dei costi dell’istruzione terziaria del nostro paese. Inoltre, spiace ricordarlo, in Italia purtroppo le tasse le pagano un po’ sempre e solo gli stessi, e chi le paga ne paga già tante. Aumentarne la progressività senza far emergere davvero l’effettiva base imponibile non aiuterebbe, diciamo.
Ci sono autorevoli studiosi che sostengono che una maggiore progressività si possa raggiungere con la tariffazione dei servizi su base ISEE che includendo anche patrimonio mobile e immobile e tenendo conto della dimensione della famiglia offre una fotografia più veritiera della capacità di spesa di un nucleo rispetto alle dichiarazioni dei redditi. Le tasse universitarie sono comunque nulle per chi ha un reddito ISEE inferiore ai 13 mila euro e ci sono sconti proporzionali per chi si colloca nella fascia tra 13 e 30 mila euro. Quindi a differenza di molte altre tariffe (tipo il canone RAI) queste sono effettivamente più alte per i ricchi che per i poveri.
Le tasse universitarie sono poi una parte minoritaria dei costi che una famiglia deve sostenere per fornire un’istruzione universitaria ai propri figli, la vera barriera sono gli affitti per i fuori sede, i trasporti e in generale il mantenimento di un maggiorenne non produttivo. La nostra legislazione prevede interventi di sostegno per i meritevoli e bisognosi ma pare che la lista degli idonei sia maggiore del numero di borse di studio finanziabili. Quindi forse si potrebbe intervenire aumentando i fondi per il diritto allo studio.
Va inoltre ricordato che c’è una buona fetta di popolazione italiana che non si iscrive all’università ma le cui famiglie pagano le tasse, loro (che tipicamente appartengono alle fasce più basse di reddito) già si sobbarcano in maniera regressiva l’istruzione superiore degli altri.
Ci sarà sicuramente qualcuno che non va all’università per via delle tasse, ma sospetto che sia una quota molto minoritaria. Il rapporto dell’OCSE su Education ricorda che ancora oggi il fattore che spiega con maggior potere predittivo la probabilità di un ragazzo di ottenere la laurea è l’avere almeno un genitore laureato. Non un genitore ricco, un genitore laureato (poi le cose spesso sono altamente correlate, ma non è sempre così). Sembrerebbe quindi che crescere in un ambiente stimolante e dove si sono ricevuti i benefici di un’istruzione superiore crei le condizioni migliori per poi voler investire nel proprio capitale umano. L’università è già un punto d’arrivo, per rendere davvero più uguali le opportunità bisognerebbe agire sulle condizioni di partenza. Sarebbe quindi utile destinare quei soldi nei nidi per l’infanzia che si sono dimostrati essere il modo più produttivo di investire in istruzione. È nei primi anni di vita che si acquisiscono quelle capacità non cognitive che sembrano fare un’enorme differenza nei risultati scolastici prima e sul mercato del lavoro poi. Con un investimento sui nidi poi otterremmo anche il risultato non trascurabile di aumentare la partecipazione femminile al mercato del lavoro.
L’abolizione delle tasse universitarie mi trova quindi in disaccordo, per motivi che esulano (quasi) dal mio essere una microeconomista e che come tale ragiona. Se anche ci fossero i soldi (che non ci sono) per la loro abolizione, per il diritto allo studio e per i nidi, io penso ci sarebbero ulteriori motivi per non poter appoggiare una simile proposta. In primis gli studenti sottostimano il costo opportunità che permanere in università ha sulla loro vita, se annulliamo pure il costo delle rette la situazione non può che peggiorare. Che senso ha laurearsi in 10 anni? Una riduzione dei costi universitari dovrebbe per forza accompagnarsi ad una serie di provvedimenti in grado di responsabilizzare gli studenti, di questo però non vi è traccia nella proposta.
Inoltre, pur essendo un membro del corpo accademico, so benissimo che i docenti universitari non sono tutti virtuosi e credo nel ruolo di controllo che gli studenti possono esercitare (con tutte le distorsioni che non è difficile immaginare) ma di fronte alla gratuità credo che inizierebbe pure a prevalere un “non pago, non pretendo” e non ce lo possiamo davvero permettere.
3 Commenti
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.
Come sempre, di fronte alla proposta di stanziare fondi per un certo obiettivo si possono immaginare molti altri obiettivi altrettanto o forse più meritevoli di attenzione, secondo le priorità di ciascuno; tuttavia, sono
> in disaccordo con l’argomentazione finale. Nei Paesi in cui l’università è gratuita quasi sempre è richiesto allo studente un conseguimento minimo (ad es. in termini di crediti), in mancanza del quale si perde il diritto all’esenzione dalle tasse: questo potrebbe quindi essere, al contrario, un efficace incentivo a non “attardarsi”
Un’analisi un po’ superficiale, comunque…
Riporto: “se annulliamo pure il costo delle rette la situazione non può che peggiorare. Che senso ha laurearsi in 10 anni”:
Ma chi l’ha mai detto o pensato? La` dove l’universita` e` gia` gratuita, le rette non si pagano per la sola durata legale del corso: se si sfora si paga. Elementare per tutti meno ma non per quelli che devono fare propaganda elettorale.