Il referendum sul divorzio e il comportamento elettorale degli italiani

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12 Maggio 2020

Era il 12 maggio del 1974 quando in Italia si verificava uno dei momenti più importanti da un punto di vista sociale e politico della cosiddetta “prima Repubblica”. Passato alla storia come il referendum sul divorzio esso consisteva in referendum abrogativo della Legge Fortuna-Baslini. Da un lato il Sì, appoggiato dalla Democrazia Cristiana e il Movimento Sociale Italiano; dall’altro i comunisti, i socialisti, i partiti “laici” e la sinistra extraparlamentare. Che rappresentasse qualcosa in più di un semplice, seppur importante referendum, lo si era capito già dalle settimane antecedenti a quel 12 maggio di 46 anni fa, con Giorgio Almirante che disse a più riprese che far vincere il “sì” significava allinearsi all’ideale dei brigatisti che, in quel preciso frangente storico, stavano mutando pelle.

Oltre 33 milioni di elettori e 19 milioni di No significarono “sconfitta” dei democristiani e dei missini. Il giorno dopo la fine della tornata, il Corriere della Sera scrisse in prima pagina «Il referendum ha confermato la grande maturità civile degli italiani». Il risultato venne commentato così dall’Onorevole Pietro Nenni del Partito Socialista dopo i dati ufficiali:

Hanno voluto contarsi, hanno perduto. Questa è la sorte comune dei comitati civici e dei fascisti. Questa è la sorte della Chiesa. Questa è la sorte della Democrazia Cristiana. La vittoria del No è un grosso fatto storico che si inscrive positivamente nella nostra vita nazionale da un secolo in qua. È una vittoria non soltanto delle legge sul divorzio ma dello spirito laico su quello confessionale, con conseguenze che andranno lontano nel tempo. Il risultato è per noi un motivo di profonda soddisfazione. Deve diventare per tutti motivo di rimeditazione.

A queste parole forti di Nenni che, in un semplice commento, racchiude molteplici spunti di riflessione sulla frattura tra partiti laici e confessionali, seguirono quelle degli altri leader, da Berlinguer al presidente emerito Saragat, tutti allineati sull’esaltazione della “vittoria della libertà”. Per contro, dal lato del Sì, Giorgio Almirante attribuì non troppo velatamente le responsabilità del risultato alla Democrazia Cristiana:

L’esame dei risultati zona per zona dimostra, se ve ne fosse bisogno, che il tipico elettorato di destra ha retto alla prova, mentre fasce di elettorato democristiano hanno pesantemente ceduto.

Ma quali sono stati i territori chiave in quel referendum abrogativo? Analizziamo qualche caso interessante. Facendo una prima grossolana suddivisione per zone si osserva che al Sud ha trionfato il Sì ma solo ad Avellino, Benevento e Caserta le percentuali superarono il 60%; nelle isole c’è stato un parziale equilibrio, mentre il centro ha visto tutte le sei regioni appoggiare largamente il No, con solo quattro provincie a maggioranza Sì (Chieti, L’Aquila, Macerata e Frosinone). Nella tradizionale roccaforte rossa Livorno si registrò la percentuale più bassa di Sì in tutto il centro Italia con appena il 22%, mentre a Chieti 110mila persone a favore dell’abrogazione significarono 53% in provincia.

Discorso più complesso e composito al Nord, dove le tendenze furono più interessanti e per certi aspetti inattese. In Veneto, culla della subcultura bianca, dove quattro anni prima del referendum la DC registro il 52% dei consensi alle elezioni regionali e alle politiche del 1972 fu comunque primo partito per distacco, il Sì ebbe la meglio per meno di centomila voti e uno scarto di appena due punti (51/49). Le percentuali più alte si osservarono a Padova dove il Sì raggiunse quasi il 62%, mentre nella terraferma di Venezia, teatro di lotte e forti contestazioni, ci fu una sorta di plebiscito per No che portò al 63 nel capoluogo della regione.

In tutto il Nord-Ovest, Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta, ci fu un vero e proprio trionfo del No, con nessuna provincia sotto al 57% e ben nove oltre il 70%. Emblematico anche il caso di Torino, che in quegli anni stava vivendo i postumi delle contestazioni dell’autunno caldo e che dal 1970 era amministrata da una giunta socialdemocratica, dove si osservò la percentuale più bassa del Sì in tutto il Nord Italia, con solo il 23% (superiore solo a Livorno in tutta la penisola). Anche in Lombardia si osservò una certa stabilità dell’elettorato, con Milano, amministrata dal socialista Aniasi, che fu la provincia con il maggior numero di No nella regione cardine dell’economia italiana. Per contro, a Bergamo e Brescia, storicamente “bianche”, il Sì ebbe le percentuali più alte.

Il referendum del 12-13 maggio ’74 fu, dati alla mano, una delle tornate elettorali con la maggiore affluenza della storia repubblicana. A 46 anni da quello snodo chiave degli anni Settanta, possiamo affermare che l’87% di affluenza, oggi, appare come un sogno che difficilmente si trasformerà in realtà.

TAG: Storia
CAT: Partiti e politici, società

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