Solo il 20% delle aziende italiane ha un CEO donna

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18 Dicembre 2015

Michele Barbera è il CEO di SpazioDati, startup dietro Atoka. Questo post è sponsorizzato da:

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Le donne sono l’altra metà del cielo, e in questo 2015 ormai agli sgoccioli hanno provveduto a ricordarcelo signore eccezionali come la giornalista Svetlana Alexievich, la scienziata Tu Youyou e la leader politica Aung San Suu Kyi. E bisogna anche dire che alcune tra le persone più potenti del mondo sono, per fortuna, donne: dal presidente della banca centrale americana Janet Yellen alla cancelliera Angela Merkel (che quest’anno è pure sulla copertina di Time), passando per la segretaria di stato (e candidata alle primarie democratiche) Hillary Clinton e la direttrice del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde.

Detto questo, bisogna ammettere che purtroppo una reale parità di genere è ancora lontana, pure nei paesi più avanzati. Un paio di mesi fa, in occasione di un evento organizzato dal Wall Street Journal, la chief operating officer di Facebook Sheryl Sandberg ha dichiarato che «le aziende dicono che la diversità [di genere] è importante, che vogliono più donne al comando. Gli impiegati però pensano che non sia così». Indra Nooyi, CEO di Pepsi, parlando delle difficoltà incontrate nel corso della sua carriera ha dichiarato: «É stato schifoso». Le signore e le aziende citate sono americane. Ma questo naturalmente vale anche per l’Italia.

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Anzi, una delle sfide più importanti che la società italiana deve affrontare è proprio quella di raggiungere una reale parità di genere. Secondo il Global Gender Gap Index, che misura la distanze tra donne e uomini in 4 settori chiave (economia, istruzione, politica e salute) l’Italia è al 41° posto quanto a parità. Non solo fanno meglio di noi quasi tutte le nazioni dell’Europa occidentale (in testa la piccola Islanda) ma anche paesi dal background geopolitico ed economico molto più difficile come il Mozambico (27° posto), la Bielorussia (34°) e l’Argentina (35°). In particolare, ci classifichiamo molto male nell’ambito della partecipazione economica, dove siamo addirittura al 111° posto, alle spalle di due nazioni che non hanno certo avuto vita facile nel XX secolo, cioè l’Etiopia (108°), il Mali (109°) e il Perù (110°).

Scendendo nel dettaglio, come siamo messi nel mondo delle imprese tricolori? Le donne riescono a fare carriera e ricoprire ruoli apicali? Noi di SpazioDati ci siamo posti la domanda, e abbiamo cercato di rispondere estraendo un po’ da dati dal database di Atoka, il nostro strumento di sales intelligence che aiuta le aziende a trovare nuovi clienti (per più info, si veda questo post).

Su un pool di oltre 1 milione di aziende italiane, abbiamo prima di tutto voluto capire quanto pesassero le donne. Ovverosia, in quante aziende almeno una donna ricoprisse un ruolo top, come amministratore unico, amministratore delegato, socio unico, presidente del consiglio di amministrazione, consigliere, consigliere delegato ecc…

Ebbene, abbiamo scoperto che le aziende dove il presidente del cda è una donna sono appena il 16%. Quelle dove almeno una donna è consigliere sono quasi il 47%, mentre sono soltanto il 23% delle aziende ad avere come amministratore unico una donna. Ancora, solo un’azienda su quattro ha come socio unico una donna.

Molto interessante pure il dato sugli amministratori delegati; restringendo il pool alle aziende che hanno un unico ad (ci sono infatti anche le aziende con più di un amministratore delegato), risulta che appena il 20% delle imprese ha una donna sola al comando. Invece nell’80% dei casi è un uomo, da solo, a guidare l’azienda. Sia chiaro: persino in paesi molto più attenti alla parità uomo-donna come la Norvegia (che non a caso è al secondo posto nel Global Gender Gap Index), dove ci sono quote di genere obbligatorie al 40% nei board delle aziende quotate, il management rimane saldamente in mani maschili. Insomma, non è facile da nessuna parte.

Dato che siamo un paese di piazze e campanili, abbiamo valutato anche l’aspetto geografico del tema. In base ai dati estratti da Atoka, scopriamo che le province con le aziende più amiche delle donne (in carriera) non sono Milano, Torino o magari Roma, ma realtà più piccole come Bologna, Biella, Siena e Savona. In queste province, tutte nell’Italia centrale o settentrionale, il 36% delle aziende ha almeno una signora che ricopre un ruolo top. Altre province “femministe” sono Lecco, Cuneo, Terni, Arezzo, sempre nel Centronord. Le province che fanno peggio sono Vibo Valentia e Foggia, dove appena il 24% delle aziende ha almeno una donna in un ruolo top. Si classificano male anche Caserta, Crotone, Cosenza, Bari e Catanzaro, con un misero 25%.

Dunque le province del Centronord sono più “femministe” di quelle del Sud? Sembrerebbe di sì, ma con qualche distinguo. Bolzano, dove solo il 26% delle aziende ha almeno una donna in un ruolo top, non fa meglio di Reggio Calabria, Salerno, Avellino e Potenza. Una metropoli grande e avanzata come Roma, con il suo 27%, stupisce… ma in negativo. Quanto al quadro macro-regionale, grossomodo è la stessa cosa. In Umbria e Piemonte il 34% della aziende ha almeno una donna con un ruolo top. Seguono Toscana ed Emilia-Romagna, entrambe con il 33%. La regione a far peggio è la Calabria, con appena il 25% di aziende “femministe”. In generale il Sud non fa granché bene, tuttavia le regioni insulari di Sicilia e Sardegna, ciascuna con il 30% di aziende con almeno una donna al top, fanno meglio pure di Trentino-Alto Adige, Molise, Abruzzo e Lazio.

È poi importante cercare di capire in quali settori imprenditoriali le donne abbiano ruoli al vertice (cioè siano amministratrici uniche, presidenti del cda o del consiglio direttivo, socie uniche, ad, vice-presidenti del cda, presidenti e vice-presidenti). Dalla nostra analisi risulta che i settori dove le donne pesano di più sono quelli della cura alle persone: i servizi di asilo nido e simili, dove nell’81% dei casi c’è almeno una donna ai vertici; l’istruzione pre-scolastica (69%); i servizi di istituti di bellezza e affini (61%); l’assistenza sociale non residenziale (59%).

I settori dove le donne hanno meno ruoli al vertice sono la produzione di energia elettrica (13%), la produzione di software non connesso all’edizione (14%), attività legate a studi di ingegneria, installazione di impianti idraulici, elettrici e di riscaldamento, commercio all’ingrosso di computer (16%). Insomma, senza dubbio il mondo della tecnologia e della produzione deve modernizzarsi un pochino…

Suddividendo poi le aziende sulla base della dimensione, risulta che quelle più “femministe” di tutte sono le micro-aziende: qui il 27% delle imprese ha almeno una donna con un ruolo ai vertici; al contrario, le grandi aziende sono le peggiori, dato che soltanto nel 16% dei casi c’è almeno una signora al comando. Se però non consideriamo solo i ruoli al vertice, ma tutti i ruoli top, allora a far meglio sono proprio le grandi aziende.

Nel complesso, è evidente che il mondo imprenditoriale italiano deve tingersi un po’ più di rosa. Tuttavia la cultura aziendale sta cambiando, e come imprenditore me ne accorgo ogni giorno di più. Anche se potrà volerci ancora un po’, sempre più cda e super-manager stanno realizzando quante donne in gamba ci sono là fuori. È solo questione di tempo, e l’altra metà del cielo romperà finalmente il soffitto di cristallo.

 

Michele Barbera autore di quest’articolo, è il CEO di SpazioDati

TAG: atoka, aziende, donne, impresa, pari opportunità
CAT: PMI, Questioni di genere

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