Giustizia

“Toni, mio padre”: un film che dovrebbero vedere tutti

7 Novembre 2025

“Toni, mio padre”[1]. Senza esagerazioni, un capolavoro. Che arriva nei cinema italiani dal 10 novembre. Un film che non volevo vedere e che per fortuna ho visto su insistenza di un amico. Un film capolavoro perché è anche un documentario che narra con grande delicatezza, sobrietà, intimità, pudore e sincerità, senza mai un cenno di retorica, un dramma familiare che rappresenta di fatto il dramma di un’epoca che, tra lotte, scioperi, manifestazioni oceaniche di protesta, terrorismo, feriti e morti, contestazioni studentesche ed esplosione del femminismo, ha cambiato l’Italia. Un film che rende anche chiaro che, quando a essere colpita dalla giustizia o dalla malagiustizia è una persona, colpevole o innocente che sia, specialmente se è colpita per motivi e reati politici ne è colpita anche la sua famiglia, e in modo particolare i figli. I figli pagano le colpe dei padri, vere o presunte, ma i figli giovanissimi restano di fatto almeno in parte orfani, imprigionati negli affetti. “È come se avessero messo in galera anche noi nell’anima”, dice la regista del film, che quell’esperienza traumatica ha cominciato a viverla dall’ormai lontano 7 aprile 1979, quando aveva appena 14 anni e si è ritrovata con l’adolescenza troncata.

Quel 7 aprile suo padre è stato arrestato, assieme a molti altri, me compreso, con accuse pazzesche totalmente infondate: dal sequestro e uccisione dell’onorevole Aldo Moro e della sua scorta e altri 17 omicidi fino alla Direzione Strategica dei vari gruppi terroristi di sinistra, a partire dalle Brigate Rosse che avevano rapito e ucciso Moro con un agguato e massacrato la sua scorta. Non è stata trascurata neppure l’accusa che era scaduto il bollo della Renault rossa nella quale i brigatisti il 9 maggio ’78 avevano lasciato il cadavere di Moro in via Caetani a Roma.

Un film asciutto. Ma ricco di sentimenti, di humana pietas paterna e filiale, di tenerezza e di durezza. Da una parte un uomo, un padre, Antonio Negri, detto Toni, a suo tempo un rivoluzionario sotto vari aspetti, politici, intellettuali e culturali, ma ormai vecchio e malato, con le cannule nelle narici per poter respirare, e però sempre dialogicamente vivace, lucido e anche polemico. Dall’altra sua figlia, Anna Negri, che dall’età di 14 anni non ha più potuto vivere con lui e neppure averlo vicino perché arrestato e condannato per reati politici. Da una parte un padre che dice: “Non riesco a capire perché tu non voglia accettare che i tuoi genitori sono stati dei rivoluzionari. E che non erano matti, ma che erano gente che aveva pensato fosse possibile trasformare l’Italia”. Dall’altra una figlia, la sua, che gli chiede: “Ma voi veramente pensavate di fare la rivoluzione in Italia?”. E che di fatto rimprovera “Toni, mio padre” di avere preferito a lei, sua giovanissima figlia, la politica, la passione politica, E di averlo così dovuto perdere fin da ragazzina.

 “Toni” e il blitz del 7 aprile 1979

Arrestato il 7 aprile 1979, Toni Negri nel 1983 viene candidato alle elezioni politiche dal partito radicale e scarcerato perché eletto deputato. Anticipando la decisione del parlamento di toglierli l’immunità parlamentare, a settembre fugge in Francia, e si stabilisce a Parigi, perché da tempo per decisione del presidente François Mitterand la Francia non concede l’estradizione per ricercati o condannati per reati politici. Il 12 giugno dell’anno successivo, 1984, il tribunale di Roma lo condanna a 30 anni di carcere, ridotti poi a 12 in appello nel giugno 1987 e confermati dalla Cassazione l’anno successivo.

Caduto in modo ignominioso l’intero mega castello di accuse del 7 aprile ’79, i magistrati del processo d’appello per non far perdere del tutto la faccia alla magistratura si sono ridotti a condannare Negri per partecipazione ad una confusa e non ben specificata associazione sovversiva e per “concorso morale” in una tentata rapina, quella del 5 dicembre 1974 ad Argelato, nel Bolognese, i cui autori in fuga uccisero un carabiniere, Andrea Lombardini. Il “concorso morale” di Negri è stato desunto, alquanto arbitrariamente, dalla seguente frase attribuitagli dal pentito Carlo Fioroni, che la riportava per sentito dire in quanto totalmente estraneo ai fatti di Argelato: “L’azione di autofinanziamento è andata male. Siamo stati così sfortunati che è rimasto per terra in vita un testimone (un altro carabiniere, ndr), perché la pistola si è inceppata”.

Per non divagare troppo, chi era Fioroni lo diremo nel post scriptum.

A Parigi il vulcanico e inarrestabile docente padovano riprende l’attività intellettuale e politica anche a livello internazionale, come ideologo di nuove forme di comunismo e del movimento no-global.

Dopo un patteggiamento Negri torna in Italia nel 1997, resta in carcere altri due anni, per un totale di sei, e ne farà  altri quattro in semilibertà per tornare infine libero nel 2003. Nel frattempo Anna non ha più 14 anni, ha superato di non poco i 30, è diventata adulta: suo padre è stato cioè assente non solo per tutta la sua adolescenza.

Cossiga: “Negri, sì, fu un’ingiustizia”

Il 7 febbraio 2002 l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga in una intervista[2] dichiarerà senza mezzi termini:

“Nei confronti di Toni Negri fu condotta un’azione giudiziaria che ricorda, mutatis mutandis, Mani Pulite. I classici teoremi dei magistrati di sinistra. Sì, assolutamente: fu un’ingiustizia. Al massimo, Negri si sarebbe meritato una piccola condanna per aver incitato qualche studente a dare un po’ di bastonate. Ma siamo sul piano della rissa, non del terrorismo. Mi creda: Negri ha pagato un prezzo sproporzionato alle sue responsabilità. È una vittima del giacobinismo giustizialista”.

I nodi irrisolti, i vuoti, le nostalgie, l’affetto impossibilitato a essere espresso, e quindi a essere vissuto e ricambiato, tutto ciò Anna Negri lo aveva già affrontato e narrato in un libro, edito nel 2009: “Con un piede impigliato nella storia”. Ma per tentare di recuperare almeno parte del tempo perduto, confrontarsi su tutti i cahiers de doléances  e riappacificarsi davvero col padre, un libro non poteva bastare. Ed ecco l’idea del film, senza filtri: un film dialogo e autocoscienza reciproca,  nel quale Anna figlia si arrabbia anche, piange, sorride in modo forse almeno in parte liberatorio. Un film che è un modo per riabbracciare e tenersi finalmente stretto quel padre, Toni, prima che, a ormai 90 anni di età, andasse via definitivamente: rubato questa volta da un male incurabile.

Anna Negri, figlia di Toni, è regista e sceneggiatrice

Il film è un impasto di storia dell’intera Italia e di memoria familiare, di carcere, nodi e furori irrisolti, rabbia, affetto, affetti, rimproveri e rimpianti. Ed è corredato da filmini di famiglia inediti, girati da Anna ragazzina, e da immagini dell’epoca. Brevi squarci di intimità familiari e di storia.

“Toni, mio padre”. Suo padre e mio amico e compagno, anche di carcere, dei furiosi anni ’70. Toni è infatti il docente Antonio Negri, per tutti solo Toni, cattedra di filosofia politica, direttore dell’Istituto di Dottrina dello Stato dell’Università di Padova,  filosofo, saggista, politico, politologo, principale teorico con Mario Tronti del marxismo operaista[3], instancabile agitatore e organizzatore, attivissimo negli anni in cui la rivoluzione, più o meno comunista, pareva imminente. Tutte attività che, a lui, sulfureo docente universitario, il più giovane cattedratico italiano dell’epoca, gli varranno, già prima del mandato di cattura, il titolo – coniato dal giornalista Indro Montanelli – di “cattivo maestro” per antonomasia. A chi lo aveva accusato di tutto un po’ troppo frettolosamente, con scarsa o nulla onestà, ed era stato smentito in modo tombale non restava altro che lanciargli l’accusa di “cattivo maestro”. Come se loro invece fossero stati buoni maestri… Se lo fossero stati, gli anni dal ’68 all’80 non sarebbero stati quello che invece sono stati.

 “Dobbiamo sciogliere Potere Operaio!” 

I miei rapporti con Toni, che stimavo come intellettuale, non sono mai stati idilliaci: “Troppi galli in una pollaio”, dicevano scherzosamente amici e compagni nella nostra Padova. La prima volta che l’ho visto è stato all’inizio del ’68, in una assemblea di studenti universitari tenuta non all’Università, ma arrangiata alla bell’e meglio chissà perché in uno stanzone al piano terra di uno stabile di via Soncin, nell’ex ghetto di Padova. Ero già il presidente dell’intera Assemblea d’Ateneo, perciò a un certo punto ho chiesto chi fosse a un giovane adulto con occhiali vistosi, intervenuto più volte con foga e passione, sorrisi nervosi improvvisi, che citava con insistenza la “classe operaia”, l’”operaio massa”, Porto Marghera e la Fiat Mirafiori, tutti soggetti che a quel tempo non capivo ancora cosa c’entrassero con noi studenti.

“Sono il professor Toni Negri”, è stata la risposta.

“Ah, lei quindi non è uno studente. La invito perciò a uscire”.

E Toni senza protestare è uscito. Il brusio in sala mi ha fatto capire che avevo sbagliato.  In seguito si è deciso che l’Assemblea d’Ateneo, tenuta sempre nella grande  aula A ad anfiteatro della facoltà di Fisica, della quale ero uno studente, fosse aperta anche a docenti e assistenti. Toni però non vi ha più preso parte, si faceva vivo semmai in qualche comitato di base.

Pietro Calogero, il  sostituto procuratore di Padova che il 7 aprile 1979 autorizzò l’arresto dei maggiori leader di Autonomia Operaia, tra cui Toni Negri

Un ricordo nitido e assai particolare che ho di lui è quando in via Marzolo, sul marciapiedi tra la Facoltà di Fisica, dove studiavo, e la Casa dello Studente Arnaldo Fusinato, dove abitavo, ci siamo incontrati Toni, io e Franco Piperno, uno dei fondatori di Potere Operaio e destinatario anche lui di un mandato di cattura del 7 aprile ’79. Mentre Piperno tentava di tener fermo col guinzaglio il suo cane lupo, Toni ci ha comunicato arrabbiatissimo la sua decisione di sciogliere Potere Operaio:

“Quei pazzi di Roma per errore o no sta di fatto che hanno provocato il rogo di Primavalle[4], dove sono morti bruciati nel loro appartamento i due giovani fratelli Mattei, figli del segretario della sezione locale dei neofascisti dell’MSI [Movimento Sociale Italiano, ndr]. All’interno del servizio d’ordine di Roma c’è una deriva brigatista che va assolutamente stoppata, rifiutata. Tra noi e le Brigate Rosse c’è un abisso. Meglio sciogliere Potere Operaio prima che il virus  brigatista si diffonda e l’abisso scompaia”. Particolarmente assurda quindi l’accusa, tra le altre, di fare parte della Direzione Strategica anche delle Brigate Rosse.

E in effetti Potere Operaio nel giugno del 1973 venne sciolto, con un apposito convegno nazionale durato tre giorni nell’albergo di Rosolina Lido.  Albergo che, ironia della storia, che si chiamava e si chiama tuttora Po . Ma non con riferimento a Potere Operaio, bensì perché Rosolina Lido, in provincia di Rovigo, è una località balneare alla foce del fiume Po. Il convegno avrebbe dovuto tenersi a Padova, nell’aula A di Fisica, la cui disponibilità avevo appositamente chiesto al rettore Enrico Opocher, che mi disse no.

Con Toni e un altro detenuto del 7 aprile, il comune amico padovano Lauso Zagato, ho vissuto una settimana in una cella del braccio G7 del carcere di Rebibbia. La prima delle mie quattro settimane passate a giugno al G7 di Rebibbia – interamente riservato a noi del 7 aprile – prima di essere scarcerato il 7 luglio di quell’anno. Ho dovuto cambiare “stanza” perché Toni non sopportava che io mangiassi ogni mattina a colazione un intero bulbo di aglio crudo:

“Pino, puzzi troppo di aglio. Chiedi al direttore che ti sposti in un’altra cella. Puoi andare in quella qui a fianco dove c’è Minestrina”.

“Minestrina” era il soprannome di Luciano Ferrari Bravo, assistente universitario di Toni e anche lui in galera dal 7 aprile.

Toni Negri muore il 16 dicembre 2023 a Parigi, all’età di 90 anni

L’ultima volta che ho visto Toni è stato in un ristorante e a casa sua a Venezia nel 2005. Ci sono andato con Alessandro Dalai, amministratore della casa editrice Baldini&Castoldi, che avevo convinto a ripubblicare i due suoi libri che ritenevo più interessanti: quello su Spinoza, edito nella sua prima versione nel 1981,  e La forma Stato, già pubblicato da Feltrinelli nel ’77. Qualche mese dopo venni raggiunto in piazza della Scala, a Milano, da una telefonata di Toni che si lamentava con me, quasi rimproverandomi, di non avere ricevuto dalla Baldini&Castoldi quanto pattuito nel contratto. La telefonata mi ha molto imbarazzato, anche perché ignorando totalmente la faccenda non sapevo cosa rispondergli, e mi ha fatto sentire in colpa,

Poi con Toni solo scambi di qualche sms  telefonico: mi scriveva che era malato, ancora in ospedale: “Ci rivediamo quando sarò guarito”. Non è guarito. Del suo ricovero a Parigi non ne ho saputo nulla. Della morte ho appreso dai giornali.

Non solo “anni di piombo”

Che avrebbero proiettato il film realizzato dalla figlia l’ho saputo solo il giorno prima da un amico deciso a “non perdere l’occasione anche se dura due ore senza interruzione”. Un amico che il 25 ottobre mi ha invitato ad accompagnarlo, al cinema Ideal di Lisbona, dove lo proiettavano in occasione di un festival cinematografico riguardante i documentari. Non volevo andarci per il timore di farmi prendere dai ricordi del “bel tempo che fu”: dagli anni ’68, esplosione del Movimento Studentesco, e ’69, esplosione dell’”autunno caldo” a base di scioperi e di grandi manifestazioni di protesta al grido di “studenti e operai uniti nella lotta”, fino al ’79, anno del famoso blitz giudiziario padovano del 7 aprile.

Non volevo andarci per il timore di farmi prendere dai ricordi e precipitarci dentro,  con inevitabile forte nostalgia e forte, insostenibile  commozione. Invece ci sono andato. E consiglio di andarci a TUTTI: dai vecchi dinosauri sopravvissuti come me, e ormai estranei al mondo, ai millennials, i giovani della Generazione Z. I giovani che nulla sanno della drammatica e tragica storia italiana della seconda metà del secolo scorso, comprensiva anche degli “anni di piombo”: vale a dire, gli anni del terrorismo, di destra e di sinistra, che ha insanguinato l’Italia negli anni ’70 e ’80. Non è stato facile e indolore passare da Paese prevalentemente agricolo a Paese prevalentemente industriale, con partiti in eterna e feroce lotta tra loro come la Democrazia Cristiana, che guardava al Vaticano e agli USA, e il Partito Comunista, che guardava a Mosca e all’Unione Sovietica, col Partito Socialista e il Partito Repubblicano che si barcamenavano. Tutti affondati nella prima metà degli anni ’90 da scandali e processi per la pratica di mungere soldi, le famose tangenti, da industriali e imprenditori e tutti totalmente scomparsi  assieme agli altri partiti.

Il cambiamento è stato un parto lungo e doloro, accompagnato da una marea di scioperi e grandi manifestazioni di protesta, non di rado sfociate in scontri con la polizia e morti e feriti. Un giornale inglese ha scritto che con “l’autunno caldo” del ’68 l’Italia è “entrata scalciao nell’epoca moderna”. Quegli anni non sono stati solo terrorismo, lotta armata e affini come vuole far credere la vulgata che va per la maggiore. Ci sono state anche cose positive, in gran parte andate perdute.

Post Scriptum

1) – Anna Negri l’ho vista due o tre volte quando da bambina  abitava a Padova coi genitori e il fratellino in un palazzo adiacente a piazza della Frutta.  Già da ragazzina con la sua cinepresa Super 8 amava girare brevi filmetti, in ambito prevalentemente familiare.  A 18 anni decide di sviluppare quella sua passione andando a vivere a Parigi, dove lavora da assistente per vari registi, tra i quali il giapponese Nagisa Oshima. Successivamente studia all’Accademia di Belle Arti  di Groningen, in Olanda, e infine a Londra, dove si laurea in cinema al London College of Printing e consegue un master al Royal College of Arts. Il  successo internazionale lo ha raggiunto nel 2008 con il film Riprendimi, presentato al Sundance Film Festival. Anna Negri ha diretto per Netflix le serie Baby (2018) e Luna Park (2021).

2) – Carlo Fioroni era un militante di Potere Operaio di Milano e ne venne allontanato per il suo voler passare alla lotta armata. Decide così di fondare il Fronte Armato Rivoluzionario Operaio, per finanziare il quale decide di rapire il suo amico Carlo Saronio, figlio 26enne dell’industriale chimico Piero Saronio. Organizza il sequestro con due delinquenti comuni, ma l’eccesso di cloroformio nel tampone per addormentarlo a tradimento uccide Saronio. Ciononostante i rapitori riescono a farsi pagare quasi mezzo miliardo di lire dell’epoca (come dire 250mila euro di oggi, senza però contare la svalutazione). Arrestato in Svizzera mentre tenta di riciclare parte della cifra, viene estradato in Italia e condannato in primo grado nel 1978 a 27 anni di carcere per il sequestro a scopo di estorsione e l’uccisione del suo amico Saronio. Una inchiesta di Potere Operaio di Milano appura la responsabilità di Fioroni ben prima delle indagini della polizia. Qualche militante scandalizzato e infuriato propone di uccidere Fioroni per punizione. La risposta di Negri è lapidaria:  “Ma siete impazziti?!”.

Dopo gli arresti del 7 aprile ’79 Fioroni – che ignora come Negri gli abbia salvato la vita – coglie la palla al balzo per pentirsi. Dai suoi racconti, a Toni verrà contestato anche il concorso nel sequestro e omicidio di Saronio, accusa finita anche questa in una bolla di sapone perché anch’essa assolutamente priva di basi. Non resta che attaccarsi alla frase riportata per sentito dire: “L’azione di autofinanziamento è andata male. Siamo stati così sfortunati che è rimasto per terra in vita un testimone, perché la pistola si è inceppata”.

Guarda caso, Fioroni al processo d’appello chiuso il 29 maggio 1981 si vedrà ridurre generosamente la pena a 10 anni. Mentre a Negri, che al processo d’appello verrà condannato sulla base di quel sentito dire di Fioroni, in basa alla nuova legge sui pentiti verrà negata la possibilità di controinterrogare il “pentito” Fioroni.  Che nel frattempo, sempre guarda caso, s’era visto condonare gli ultimi tre anni di carcere e, scarcerato il 14 febbraio del 1982, aveva anche ottenuto il passaporto per l’espatrio. Il tutto, rifiutando confronti con le persone che aveva accusato e perciò senza aver mai ripetuto come testimone le sue accuse in un’aula di tribunale.

3)  Le accuse sul rapimento e uccisione dell’onorevole Aldo Moro si basava su cinque intercettazioni telefoniche attribuite a Negri e una a me. Per tentare di capire se le voci fossero davvero nostre i magistrati ordinarono le perizie foniche di comparazione delle nostre voci – registrate appositamente nel carcere di Rebibbia – con quelle delle intercettazioni telefoniche. Così quando venni scarcerato il mio amico e collega de L’Espresso Mario Scialoja, al quale devo il mio ingresso nel giornalismo, ebbe l’idea di allegare a un numero del giornale un disco con le registrazioni delle voci sia dei brigatisti che nostre. Mario ebbe l’idea, io procurai il materiale chiedendolo al mio perito fonico di parte, il docente John Trumper, inglese  trapiantato in Italia. Nacque così il disco “Vate voi la perizia fonica”, allegato a L’Espresso del 27 gennaio 1980[5] (oltre 300mila copie vendute). Nell’etichetta sotto il titolo c’era scritto: “In questo disco sono registrate le due più drammatiche telefonate delle Brigate rosse durante il sequestro Moro, e i campioni di voce appartenenti a Toni Negri e Giuseppe Nicotri sospettati dai magistrati di esserne gli autori. I prelievi delle voci degli imputati sono stati effettuati dai periti nel carcere di Rebibbia a Roma”

 

 

 

[1] https://www.youtube.com/watch?v=B8NDeZNVoiY

[2] https://web.archive.org/web/20140714122831/http://www.marx21.it/component/content/article/42-articoli-archivio/3071-cossiga-le-deviazioni-dei-giudici-toni-negri-la-prima-vittima.html#

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Operaismo

[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Rogo_di_Primavalle

[5] https://lespresso.it/c/politica/2023/12/18/quando-lespresso-con-un-disco-scagiono-toni-negri/47542

 

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