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Parlamento

Quei senatori nel treno ed i “quaderni” di Antonio Gramsci

di Biagio Riccio
1 Ottobre 2020

“Sai, devo andare oggi in Commissione Finanze, ma non so nulla dell’argomento all’ordine del giorno. Ora sai cosa faccio? Porto il telefonino con me e, mentre il relatore parla, sento in cuffia un po’ di musica, facendogli credere di ascoltarlo, annuendo e sorridendogli. Così lui pensa che io lo stia seguendo. Poi se vuoi dopo ci rivediamo e, prima della prossima commissione, vorrei prendere un caffettino o fare un pranzo veloce, un collegamento su Facebook per dire quanto lavoriamo e contare le visualizzazioni che riscuotiamo. Oggi vale solo Facebook più delle televisioni e spesso faccio foto che i miei followers gradiscono. Tu come te la passi?”
Trattasi di una giovane senatrice, indubbiamente bella e vestita con gusto e di  palpabile charme; ritengo alla prima esperienza a Palazzo Madama.
Serafico e gioioso risponde l’altro, anche egli senatore, finemente abbronzato ed elegante: “benissimo, da Dio. Guadagno tanti soldi e non so nulla di quello che discutiamo. Sono qui per votare solamente ed obbedisco al mio capogruppo. Voto ed incasso: è una pacchia da nababbo. Noi dobbiamo sperare che il governo duri sino alla fine, così prendiamo lauti stipendi. Sono fedele come i carabinieri e vorrei essere candidato alle prossime elezioni, ma temo che finisca la giostra“.
È questo uno scampolo di colloquio – volutamente ascoltato – fra un senatore ed una senatrice incontrati su un Frecciarossa diretto a Roma.
Li osservavo e, con aria fra il compassionevole e lo schifato, tradivo la mia ripugnanza e la totale disapprovazione.
Credo che se ne siano accorti del mio gelido sguardo ed hanno capito di essere scurati e, pentiti di aver interloquito a voce alta sulle nefande insignificanze della loro giornata fatta di caffettini, apericena, foto su Instagram e soliloqui da sciaquette e lestofanti mistificatori – di sicuro fanno video su Facebook (e social vari) – si sono guardati smarriti, come ladri sprovveduti  e scoperti con le mani nella marmellata.
Hanno, impauriti, affermato all’unisono: “questo, se è un giornalista e ci ha ascoltato e sgamati, siamo fritti”.
Il mio sguardo, ancor  più penetrante, di assoluto disgusto ed avversione non affatto celata, li ha annichiliti: il silenzio era una risposta alla loro futilità.
Ecco, da chi siamo rappresentati: e sono quelli che gridano “abbasso la casta” e sono i primi a difenderne i privilegi. Non sanno neppure cosa votano e discutono ed ogni volta che vanno nei palazzi del potere, come se facessero una scampagnata, è sempre festa; tutto è spesato e pagato, anche il viaggio a Roma ed il pranzo alla buvette di Montecitorio.
Segna, l’insulso colloquio, il grado dell’incultura e della strafottenza di costoro.
L’amarezza mia poi l’ho mostrata con un gesto eclatante: ho tirato fuori dalla borsa uno dei “Quaderni” di Antonio Gramsci, quelli che  Sandro Pertini salvò dalla tracotanza dei fascisti, i quali in carcere tentarono di bruciarli. Stavo ripassandoli per un mio intervento all’aula Nassiria proprio a palazzo Madama, in un convegno nel quale ero stato indicato come relatore.
Ho fatto cadere il libro e volutamente l’ho spinto con il piede, affinché lo vedessero.
E cosi è avvenuto: una punizione di cultura a chi indegnamente ci rappresenta.
Hanno capito di essere inconsistenti e pieni di una vacuità sconfortante.
Ho raccolto con sussiego narcisistico il libro e mostrato loro con indubbia alterigia: avevano il volto smarrito.
Li ho lasciati con un plumbeo silenzio nella lercia della loro melensa povertà.

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