Partiti e politici

La sinistra del lunedì mattina: quando governare “bene” non basta più.

Una riflessione critica sulla sinistra di governo: competente, responsabile, ma incapace di mobilitare e generare desiderio. Da Milano al progressismo post anni ’90, il realismo amministrativo ha soffocato il sogno politico e la partecipazione.

20 Dicembre 2025

L’altra sera, cena a casa di amici, conosco Jacopo (nome di fantasia): un bel tipo, mio coetaneo, dirigente pubblico in un ruolo importante, milanese di origine ma da tempo fuori Lombardia, alle spalle una solida esperienza negli enti locali. È di sinistra, ma di quella vera: formazione, militanza, relazioni. Abbiamo molte conoscenze in comune, probabilmente ci siamo già incrociati.

Come spesso accade quando due persone si conoscono per la prima volta e scoprono di avere parecchio da dirsi, la conversazione spazia a 360 gradi. E inevitabilmente finisce su Milano.

Si parte da una questione molto concreta: viviamo tutti in Città Studi e ci chiediamo che cosa succederà degli spazi lasciati liberi dall’Università. Da lì il discorso si allarga al governo della città. Ed è qui che, pur così vicini per età e orientamento politico, io e Jacopo ci troviamo su fronti opposti.

Io sono il solito rompiscatole che non si fida. Non si fida dell’attuale gestione della cosa pubblica, soprattutto quando si parla di grandi operazioni urbane: Città Studi, Human Technopole, piazzale Loreto e altro che non facciamo in tempo a toccare. Non mi fido dell’idea che una “cosa pubblica” lasciata in mano a chi ha da tempo come bussola principale la fluidificazione del mercato – i famosi produttori di cuscinetti a sfera per rendere tutto più “smooth” – possa davvero produrre beni pubblici.

Nel caso di Città Studi, pur partendo da una posizione affettiva e conservatrice (ci vivo per scelta e non vivrei altrove a Milano), vedo già dissolversi l’afflato di ridisegnare nuovi spazi pubblici, soprattutto se affidato ad un’amministrazione che ha messo il confronto con i cittadini nell’archivio delle menate da evitare. Vedo un’Università Statale che ha bisogno di fare cassa per arredare la casa nuova e, all’orizzonte, l’ennesimo hotel di lusso a stelle iperboliche, residenze universitarie per figli di notabili o “Celoria 25, il tuo angolo di benessere a Milano”, con parcheggi per il SUV al piano e costi conseguenti. Tutto in una città che ha evidenti problemi di identità, anche di luoghi, in via di smarrimento.

Jacopo, forte di una solida cultura giuridico-amministrativa, è invece ottimista: per lui tutto ciò che è reale è razionale. L’Università se ne va perché oggi le università funzionano così. Il progetto di piazzale Loreto va bene così. E soprattutto – ammonisce – smettiamola di lamentarci di Sala, perché se arriva qualcun altro dall’altra parte poi ci accorgeremo della differenza.

Non ce la faccio, fisicamente, a dargli completamente torto. Un po’ perché il mio essere “di pancia” arriva sempre fino a un certo punto: sono di indole un “fixer” che si sta un pochino radicalizzando in vecchiaia. Un po’ perché riconosco benissimo la sua traiettoria intellettuale: è quella della sinistra ottimista e possibilista degli anni Novanta. La stessa in cui mi sono formato anch’io.

Allora ci sembrava di aver scoperto una nuova quadratura del cerchio. Bastava essere sul pezzo, tecnicamente preparati, dire cose che stavano in piedi e farle con un po’ più di attenzione alle conseguenze. Eravamo progressisti con compassione, e compassionevoli, convinti che il mercato – o, nella versione più di sinistra, l’amministrazione – potesse essere il luogo da cui cambiare il mondo. A qualcuno, come Jacopo, quella strada ha portato davvero e con pieno merito nelle stanze di comando.

Poi però gli anni Novanta sono finiti. Ce ne siamo accorti un po’ tardi. E oggi ci troviamo con ben poco in mano. Il mercato che dovevamo governare con il sorriso ci ha fatto a fette, ha ridotto il consenso progressista e ha riempito il mondo di gente furiosa. Ma siccome, tecnicamente, i conti tornano, questa rabbia per molti resta incomprensibile: la gente sta meglio di prima, vive più a lungo, ha l’acqua calda in casa. Se si arrabbia, è perché non legge, non studia, ascolta i cattivi maestri populisti.

La versione amministrativa di questo svuotamento è quella che Jacopo riassume con onestà: le cose sono complesse, governare è un casino, tutti hanno interessi legittimi e la sinistra deve cercare di tenerli insieme facendo il meglio possibile. E comunque – dice – guardiamoci indietro: di cose buone ne sono state fatte tante. E poi, se arrivano “quegli altri”, è peggio.

È tutto terribilmente vero. Eppure terribilmente loffio. E soprattutto non mobilita più.

Dopo oltre trent’anni di ingresso massiccio della sinistra nelle istituzioni, nel senso che se la gioca a tutti i livelli di governo, abbiamo prodotto una classe dirigente di altissimo livello: persone capaci di negoziare in Europa, scrivere riforme, far quadrare i conti. Tecnici brillanti, un po’ nerd, come Jacopo: intelligenti, colti, capaci di spiegarti con un sorriso quello che si può e non si può fare. Se il Paese non è definitivamente precipitato nel caos lo dobbiamo anche a loro.

Ma qui sta il paradosso storico: tutto questo capitale umano, questa competenza, questa moderazione responsabile, ha reso pochissimo alla parte politica che se ne è fatta carico. La sinistra è diventata il figlio modello: bravo, affidabile, quello che non dà mai preoccupazioni ai genitori. Nel frattempo, però, l’altro figlio – quello cialtrone, bugiardo ma simpatico – faceva casino, prometteva l’impossibile, deludeva, ma sapeva farsi voler bene. Dall’avvento di Berlusconi in poi, questa è stata la storia della destra italiana.

Presi tra chi prometteva l’impossibile facendosi i fatti propri e la progressiva perdita di tensione ideale – oserei dire anche erotica – della politica come passione e cambiamento, i progressisti si sono ritrovati ad amministrare l’esistente. Che, negli ultimi decenni, spesso fa abbastanza schifo.

Non si sogna più. O meglio: si sognano cose lontane, astratte, mentre tornando in ufficio domina un solido realismo amministrativo da lunedì mattina.

Ed è questo il punto. Il realismo uccide il sogno, e il sogno è ciò che muove la passione politica. La sinistra, da tempo, presidia la dimensione tecnica in modo impeccabile. Nulla le sfugge. Ma questa perfezione l’ha inaridita. Gli anni Novanta – lo dico con l’autocritica di chi alla Terza Via ha creduto – sono stati tremendi anche per questo: si pensava che solo ciò che “reggeva” tecnicamente avesse diritto di esistere. Un errore madornale, che ci ha consegnato a una spirale di realismo senza poesia e senza senso.

Se devo limitarmi a scegliere tra opzioni tecniche, allora fate voi: se siete competenti, andrà bene comunque. Da qui nasce la crisi della partecipazione: perché partecipare non serve più a nulla.

Qualcosa, però, sta cambiando. In pochi luoghi, con poche persone. Quando le cose vanno talmente male che la radicalità torna ad avere senso. Mi è capitato di ascoltare i discorsi più di sinistra degli ultimi anni non in un circolo politico, ma all’arcivescovado. Il direttore di questa veneranda testata, a cui lo raccontavo, mi ha fatto notare una cosa decisiva: la differenza sta nel non aver mai rinunciato a immaginare un mondo diverso. Nel caso della Chiesa cattolica, questo immaginare è scritto nell’atto costitutivo.

Dove si è smesso di immaginare, anche amministrando bene, le cose non sono andate benissimo.

Che sognare un minimo non solo si può, è un dovere politico.

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