Partiti e politici
La valenza politica dei referendum di giugno 2025
La campagna per i referendum dell’8 e il 9 giugno 2025 sembra aver fatto esplodere il ruolo politico della tornata referendaria.
La campagna per i referendum dell’8 e il 9 giugno 2025 sembra aver fatto esplodere il ruolo politico della tornata referendaria. I referendum hanno spesso valenza politica. Questo dipende dalla nostra Costituzione che prevede solo il referendum abrogativo con un quorum del 50%, a eccezione delle modifiche costituzionali.
Di conseguenza, chi propone i quesiti referendari deve prima fare il lavoro dell’Azzeccagarbugli per comprendere come migliorare la vita dei cittadini cancellando qualche pezzetto di norma. Poi, deve dare enfasi politica alle modifiche proposte per portare i cittadini a votare. Questo meccanismo crea distorsioni sempre più evidenti. Forse, è giunto il momento di aggiornare la nostra Costituzione, magari inserendo il referendum propositivo e abbassando un po’ il quorum.
I quesiti e il Jobs Act
Difatti, i cinque quesiti dell’8 e il 9 giugno rappresentano un paradosso per cui sono in parte snobbati dalla stampa e dall’opinione pubblica, dall’altra sono estremamente politicizzati. Una parte della stampa, anche quella più seria, non sembra tanto interrogarsi sul merito, ma sulle dinamiche dei partiti, dei sindacati e dei loro leader. Una parte della cittadinanza, sembra non votare più per ripicca verso il centrosinistra e il sindacato che per vera convinzione.
Questa dinamica favorisce il mantenimento di una legge poco amata, il Jobs Act. La legge è nata con dei buoni propositi di semplificazione dell’assetto normativo del mondo del lavoro, che dieci anni fa sembrava entrato in una giungla. Il caos sembrava creare un mondo di salvati, con contratti indeterminati e l’articolo 18, e di sommersi, ovvero i precari.
A livello strettamente normativo il Jobs Act ha avuto quindi un ruolo ambivalente, ma a livello politico-sociale ha creato un disastro. Ha accresciuto nettamente la sfiducia nel lavoro delle giovani generazioni, le quali agognavano le tutele dell’articolo 18 dopo anni di precariato. Inoltre, ha dato mano libera agli imprenditori, che hanno consacrato la loro vittoria nel conflitto sociale, quel conflitto sorto negli anni ’70 è già vinto dalle classi più abbienti negli anni ’80.
Inoltre, come ho detto più volte, l’abolizione dell’articolo 18 ha fatto cadere il muro dei diritti acquisiti. La sua caduta ha infatti messo in discussione tutti quei diritti civili e sociali che eravamo abituati a pensare come assodati. Pertanto, il Jobs Act non è una norma amata. Se ci fosse la consapevolezza di votare su questo, probabilmente il referendum non faticherebbe a raggiungere il quorum del 50%.
Il ruolo della politica
Ma questa consapevolezza chiaramente manca. Da una parte, non aiuta l’atteggiamento ondivago del PD, che vuole cancellare il Jobs Act dopo averlo proposto. Elly Schlein non ha compiuto giravolte, sempre schierata contro la norma con coerenza, ma non si possono certo incolpare i cittadini di non conoscere i dettagli della storia politica del PD, estremamente complicata e caotica. Dall’altra, c’è un silenzio assordante del governo che ha deciso di far fallire questo referendum senza neanche spiegarne i motivi.
Il presidente del Senato Ignazio La Russa ha affermato di far propaganda per il non voto. Si tratta di un brutto sgarbo istituzionale, perché non votare è legittimo, ma la terza carica dello stato avrebbe potuto evitare di esternarlo. Ma non possiamo lamentarci troppo della scarsa istituzionalità dei postfascisti. Possiamo invece chiedergli perché lui e il suo partito non vogliono abrogare una legge sulla quale votarono contro in parlamento. Anche perché il PD ha almeno la scusa di aver cambiato leadership, mentre FdI è sempre saldamente retta da Giorgia Meloni, che quando le cose si mettono male si rintana nel mutismo assoluto.
Eppure, oltre ad aver votato in parlamento contro il Jobs Act, La Russa e Meloni, facevano parte dell’MSI. Partito di chiara ispirazione fascista, ma che si dichiarava vicino alle classi lavoratrici. Un partito che aveva una “M” che stava per Movimento, la “I” che stava per italiano. E la “S” nel mezzo? Forse per “stoviglie”, “sarti” o “selci”? Insomma, gli eredi dell’MSI sono un partito che a parole si occupa di diritti sociali e che accusa l’opposizione di pensare solo ai diritti civili. Ma che quando potrebbe fare qualcosa per i lavoratori dipendenti, si tira indietro.
Il nocciolo della questione
Almeno, FdI ci aiuta a ricordare che chi critica gli altri di pensare solo ai diritti civili lo fa solo per evitare di parlare di diritti, civili o sociali che siano. I quesiti possono essere infatti poco chiari e cavillosi, ma il senso complessivo è chiaro. Vogliamo ridare diritti e dignità al lavoro dipendente, calpestato negli ultimi quarant’anni? Oppure vogliamo lasciare le cose come stanno, dando piena libertà alle imprese, sperando che i loro guadagni si diffonderanno anche ai lavoratori?
Direi che forse sarebbe l’ora di ridare centralità al lavoro, visto che negli ultimi decenni ben pochi guadagni sono finiti nelle tasche dei lavoratori. Nel dettaglio, i quesiti vogliono restituire libertà al giudice di valutare il reintegro del lavoratore licenziato ingiustamente nelle grandi imprese e di stabilire il giusto compenso per il licenziamento nelle piccole imprese. Inoltre, mirano a limitare l’uso dei contratti precari e ad ampliare la responsabilità delle imprese nei casi di infortunio sul lavoro.
Non è facile spiegare come un partito che si presenta vicino alle classi popolari, come FdI, sia contrario ai quesiti. L’unica spiegazione possibile è che la vicinanza ai lavoratori sia solo una messinscena, forse durata troppo. Ma, al momento, FdI gode ancora della fiducia di tanti suoi elettori, che preferiscono votare contro i propri interessi pur di fare un dispiacere a PD e CGIL, che negli anni hanno attirato tante antipatie (non del tutto ingiustificate).
La cittadinanza
Infine, c’è la questione complessa del quinto referendum. Per chi scrive, abbassare da dieci a cinque anni gli anni di permanenza in Italia per iniziare il processo di cittadinanza, è esclusivamente segno di civiltà. La sinistra dovrebbe quindi sforzarsi di spiegare alla popolazione, legittimamente impaurita, che la proposta non comporta alcun rischio. Anzi, migliora il rapporto tra gli italiani e gli stranieri maggiormente integrati nel nostro paese, che hanno l’assoluto diritto di avere pari riconoscimenti rispetto a noi italiani.
Al contrario, la destra, a volte sottotraccia altre meno, terrorizza i cittadini facendogli credere che la norma comporterà un’invasione di stranieri. Ovviamente, non c’entra niente, perché si parla di chi vive ed è integrato nel nostro paese, non di spalancare le porte all’immigrazione. Ma, senza scrupoli, si porta avanti questa narrativa tossica, lasciando trapelare che i referendum sul lavoro siano solo un pretesto per far passare il quesito sulla cittadinanza.
Illazioni razziste e fascistoidi che si scontrano contro la realtà dei fatti, per cui chi non vuole votare al referendum sulla cittadinanza può semplicemente rifiutarsi di ritirare la scheda. Un motivo in più per andare a votare cinque sì l’8 e il 9 giugno.
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