“L’Isis ha messo in conto le bombe ma non la nostra unità”
Dopo le stragi di Parigi di venerdì 13 novembre ci siamo ritrovati invasi da esperti di questione islamica, terrorismo internazionale e, soprattutto, Isis. Non c’è da meravigliarsi, in fondo. Non siamo forse il Paese dei 60 milioni di commissari tecnici della Nazionale e degli altrettanti presidenti del consiglio in pectore che sempre e comunque farebbero meglio di quello in carica?
Così in televisione abbiamo visto alternarsi come esperti di Isis conduttrici di contenitori pomeridiani per massaie, giornalisti che non hanno mai messo il naso fuori dall’Italia e politici la cui lungimiranza si misura in base al numero di bicchieri di vino con cui accompagnano la cassouela.
Il giornale inglese The Guardian, invece, ha fatto una scelta che reputo la migliore. Per cercare di fare capire di più ai suoi lettori (che è poi quello che i giornali dovrebbero fare) ha pubblicato un lungo articolo del giornalista francese Nicolas Hénin, tenuto prigioniero dai militanti dell’Isis in Siria per dieci mesi.
Scrive Henin: “Sono scioccato, come tutti gli altri, dagli eventi di Parigi. Ma non sono rimasto né sorpreso né incredulo. Conosco lo Stato Islamico, che mi ha tenuto in ostaggio per dieci mesi e ho una certezza: il nostro dolore, la nostra sofferenza, le nostre speranze, le nostre vite non li riguardano.
La maggior parte delle persone conoscono solo i jihadisti dello Stato islamico attraverso i loro documenti di propaganda. Io li ho conosciuti dall’interno. Quando ero prigioniero, ho incontrato una dozzina jihadisti, tra cui Mohammed Emwazi. Jihadi John era uno dei miei carcerieri”.
Scrive ancora Henin: “Mi capita ancora ora di parlare con alcuni di loro su siti di social networking, e posso dire che l’idea che si si ha di loro è essenzialmente il risultato di una sapiente campagna di marketing e comunicazione. Si presentano come supereroi. Ma nella realtà sono patetici”.
Il reporter d’Oltralpe racconta: “Tutti gli ostaggi decapitati l’anno scorso sono stati i miei compagni di cella. I nostri carcerieri si divertivano a torturarci psicologicamente. Un giorno hanno detto che saremmo stati rilasciati, e poi, due settimane dopo, ci hanno detto ridendo: “Domani uccidiamo uno di voi”.
Stavano conducendo finte esecuzioni. Una volta mi hanno stordito col cloroformio, un’altra, hanno messo in scena una decapitazione. Un gruppo di jihadisti che parlava francese ha gridato: “Vi sarà tagliata la testa e poi metteremo il video su YouTube”. Lo dicevano mentre agitavano un’antica scimitarra. Urlavano e ridevano”.
A parte la narrazione dell’inferno vissuto, Henin offre al lettore numerosi spunti di riflessione: “Sono rimasto veramente colpito dal loro livello di connessione tecnologica. Seguono la notizia ossessivamente, ma tutto passa attraverso il filtro della loro visione della realtà. Sono completamente indottrinati, si aggrappano a tutti i tipi di teorie cospirative, senza mai avere un dubbio. Sono convinti di essere dalla parte della ragione. Per loro, ci troviamo in una sorta di Apocalisse che porta a un confronto tra i musulmani in tutto il mondo e gli altri. Seguono le notizie e i social network, per conoscere l’impatto dei loro attacchi mortali. Immagino, in questo momento, stiano cantando: “Stiamo vincendo”.
“A incoraggiarli”, prosegue Henin. ” sono tutti i segni di reazione eccessiva: la divisione, la paura, il razzismo, la xenofobia. Saranno sicuramente attenti alle mostruosità che in questi giorni si leggono in alcuni commenti postati sui social media.
Al centro della loro visione del mondo è la convinzione che le altre comunità non possono vivere in armonia con i musulmani. Rimangono particolarmente turbati dalle immagini della Germania che accoglie i migranti. Non è quello che vogliono”.
Su come rispondere all’Isis, Henin non ha dubbi: “Penso che facciamo un errore a rispondere con le bombe. La mia paura è che questa risposta non farà che aggravare la situazione. Mentre cerchiamo di distruggere lo Stato islamico, non dobbiamo dimenticare che sono 500.000 i civili che vivono a Raqqa, dove sono di fatto intrappolati. Esiste la possibilità che molti vadano ad aumentare le fila degli estremisti, se non prestiamo attenzione alle conseguenze delle nostre azioni. La priorità deve essere quella di proteggere i civili, non inviare più bombe in Siria. Il popolo siriano ha bisogno di sicurezza, o si getteranno in massa tra le braccia dello Stato islamico”.
“Il Canada non è più coinvolto in attacchi aerei dopo l’elezione di Justin Trudeau”, conclude il giornalista francese, “mi auguro che la Francia faccia la stessa cosa. Il buon senso lo imporrebbe. Ma la realtà è ben diversa. Il fatto è che siamo bloccati. Siamo presi nella trappola dello Stato Islamico. L’Is è il male, non c’è dubbio. Ma anche dopo quello che ho vissuto, non credo che la priorità sia il Daesh. Per me, la priorità è Assad. Il presidente siriano è il vero responsabile della crescita dello Stato islamico in Siria. Fino a quando il suo regime rimarrà, il Daesh non potrà essere debellato. Nel frattempo, ci sono molte cose che possiamo fare come risposta alle loro atrocità. Dobbiamo assolutamente rimanere tolleranti e coesi. I nostri bombardamenti li hanno messi in conto. Quello che veramente temono è la nostra unità”.
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