Il rumore dell’emancipazione femminile e del riconoscimento di libertà sessuali
“Negli ultimi tempi ci si è occupati di educazione delle donne più che nel passato; esse tuttavia sono considerate ancora il sesso frivolo, schernite o compatite dagli scrittori che si sforzano di migliorarle attraverso la satira o l’insegnamento” (M. Wollstonecraft)
Qualche giorno fa ricorreva la nascita di Raffaella Carrà, nata il 18 Giugno 1943 a Bologna. Ripercorrere gli eventi della vita e della carriera di Raffaella nazionale servono a comprendere in che modo ha partecipato a una per nulla silenziosa rivoluzione culturale, nonostante il fatto che non pochi storcono il naso ogni volta che viene innalzata a portavoce del femminismo degli anni 70.
I primi anni di vita di Raffaella Carrà sono l’inizio di un percorso segnato dal destino. Ci sono persone che trovano la propria strada procedendo per tentativi ed errori, mentre altre sanno chi sono e cosa devono fare. Raffaella lo ha sempre saputo che il suo posto sarebbe stato su un palco, o in TV o ovunque avesse potuto esprimere se stessa liberamente, nel suo modo eccentrico e non convenzionale. Lo sapeva bene anche sua nonna, Andreina, che ha insistito affinché Raffaella studiasse danza classica e teatro.
È probabile che per una bambina del 1943 il desiderio di fare la ballerina si scontrasse con quanto la società reputava più appropriato, sicuro e giusto per una donna. La mamma di Raffaella, Iris, desiderava che la figlia vivesse un’esistenza convenzionale e tipica, che si sposasse con un professionista e avesse quella famiglia tranquilla che lei non aveva avuto. Iris, donna indipendente e coraggiosa, aveva infatti sfidato i pregiudizi cui dava adito all’epoca una donna separata, che viveva lontano dal marito, sola con una figlia. Cosa che ora come ora ci sembra un’eventualità come tante, ma che nella Bologna del dopoguerra sicuramente non rappresentava la normalità.
Raffaella trascorre l’infanzia e l’adolescenza circondata da presenze femminili, tra la Romagna e il Lazio, tra la scuola e il teatro e le prime parti attoriali, in un clima di agio e possibilità. Lo ha ribadito lei stessa, durante le interviste, di non riconoscersi nella narrazione della donna che “si é fatta dal nulla” o della “Cenerentola che ha avuto fortuna”, perché non era vero. Nonostante l’apporto empatico che quel racconto avrebbe potuto dare alla costruzione del suo personaggio, ha sempre preferito riconoscere il proprio privilegio, anche economico, pur sottolineando l’impegno e la perseveranza che comunque servivano – e servono – a una donna che desidera emergere in un mondo di maschi.
Durante i primi anni di carriera cinematografica, Raffaella Carrà non é ancora la Raffaella di oggi a cominciare dal nome e dall’aspetto: si chiama Raffaella Maria Roberta Pelloni e sfoggia la sua chioma naturale, bruna, riccia e crespa. La trasformazione dell’icona Raffa con il caschetto platino, lucido e perfettamente stirato avviene qualche anno dopo, nei primi anni 60, su suggerimento di un autore che ritiene opportuno semplificare il cognome, decretando l’inizio di una nuova era per l’artista, suggellata dal passaggio dal piccolo al grande schermo.
La carriera cinematografica, mai stata troppo fortunata per Raffaella, lascia il posto alla TV nel 1970, quando le viene affidata la co-conduzione di “IO Agata e Tu”, il varietà di punta di sabato sera in casa Rai. Ma condividere un palco è un compromesso che alla giovane Raffaella sta stretto. La sua personalità ha bisogno di uno spazio tutto per sè, che il programma non può garantirle. Riesce tuttavia a rosicchiare dal suo primo show tre minuti di esibizioni alle sue regole. Tre minuti densi di canto e coreografia per conquistare un Paese intero. L’anno successivo durante la conduzione di “Canzonissima”, ecco un altro, non ultimo, dei momenti più iconici della carriera della Carrà: la sigla con l’ombelico scoperto. Per la prima volta sulla TV nazionale passa un ombelico femminile. Fa scandalo. Non solo una donna alla conduzione di uno show, ma non conforme allo standard socialmente accettato: non é pudica. Ma a Raffaella non interessa ridimensionare il suo modo di stare in TV, è un compromesso a cui non scende. O così o niente e preferisce rischiare. Dopo lo scandalo dell’ombelico, tenta il tutto per tutto con la seducente coreografia del Tuca Tuca eseguita in prima serata durante il varietà che presto è oggetto di censura. Non si era mai vista un’allusione alla sessualità così esplicita e al tempo stesso giocosa. La censura, fortunatamente, viene revocata quando – guarda caso – Alberto Sordi chiede che il balletto venga reintrodotto; dimostrando, un’assurda verità: che un uomo ha più potere, e più voce in capitolo di una donna.
Molte persone la considerano un’icona troppo superficiale per essere presa sul serio, come se per contribuire alla lotta di un movimento politico servissero solo saggi, paroloni e articoli da giornale. Per una rivoluzione culturale serve, invece, che ogni ambito venga sovvertito, svecchiato dalle regole imposte dal sistema. Serve che se ne parli, che sia visibile ovunque che c’é in atto un cambiamento e quindi c’é bisogno di persone che si facciano carico di tale peso all’interno di ogni campo e settore della società. Se per esempio il femminismo fosse passato soltanto per i collettivi e i manifesti, tantissime donne non avrebbero mai conosciuto le rivendicazioni, perché l’accesso a quei luoghi di dibattito e scambio era un privilegio.
Immaginiamo una casalinga degli anni 70 che vive in un paese di provincia, magari al Sud: era complicato entrare in contatto con gruppi e circoli intellettuali, spazi di conversazione politicamente schierati a favore del movimento femminista. Geograficamente e culturalmente ci sono posti che non vengono investiti dal cambiamento in modo organico non per mancanza di persone disposte a metterlo in atto, ma per totale abbandono da parte delle istituzioni. E allora, in alcune case, in assenza di un manifesto che riassumesse in un elenco puntato i perché delle necessità di riappropriarsi del proprio corpo, c’erano persone-simbolo, come Raffaella Carrà, che lo cantavano in diretta in prima serata, con l’ombelico di fuori, le gambe scoperte, i tacchi e le spalline imbottite.
I testi delle canzoni dell’artista, accompagnati dalla performance danzante, rappresentavano una nuova femminilità, un’alternativa finalmente più libera dalle regole imposte da altri, finalmente in accordo con ” quello di cui hai voglia tu”, senza neppure dare troppe spiegazioni. Una rivoluzione definita pop, ma pop non é un insulto, vuol dire “popolare”, ed è quello di cui il popolo, soprattutto quello femminile, aveva bisogno in quel momento.
In un periodo storico segnato dalle trasformazioni culturali come gli anni 70, inoltre, c’era un altro ostacolo da fronteggiare. Moltissime persone, a prescindere dal genere, erano terribilmente spaventate dai cambiamenti e il movimento di liberazione femminile e sessuale rappresentava l’ennesimo tassello di una rivoluzione difficile da digerire. Da ciò si deduce l’importanza della rappresentazione plurale. Le donne che vivevano condizioni di subalternità in relazione, per esempio, al coniuge, non era detto che fossero entusiaste di una prospettiva di cambiamento che non dava loro alcuna certezza, a differenza dalla situazione in cui già erano, che tra i pro aveva quantomeno la stabilità. Ecco, in questo contesto, personaggi come Raffaella Carrà sono stati necessari per raccontare una verità alternativa e plurale. La stessa Raffaella Carrà donna libera, con la tuta di paillettes aderente, che usa il suo corpo come vuole, è anche la Raffaella Carrà professionista, che dirige il palinsesto di un programma in prima serata, che intervista, recita e tiene i colleghi in scacco. Non c’è più bisogno di scegliere quale ruolo interpretare, spettano tutti di diritto: questo è il messaggio che fa passare.
Altra piccola grande rivoluzione promossa dall’artista é il totale rifiuto dei pettegolezzi durante la co-conduzione, insieme a Mina, dello show “Milleluci”, nel 1974.I giornali del tempo si riempirono di articoli che riguardavano e, in alcuni casi, fomentavano la rivalità tra lei e la collega, probabilmente ignari del fatto che a desiderare la presenza della Carrà su quel palco era starà proprio Mina. Premesso che voler mettere due donne in competizione è sbagliato su tantissimi fronti – uno fra tutti si finisce per creare un distrattore rispetto alle problematiche del genere, dividendo e impedendo di agire come comunità coesa – erano i termini della competizione a essere sleali. Voler emergere nel mondo dello spettacolo come la più brava, la più brillante o preparata poteva anche essere legittimo; sarebbe, inoltre, ingenuo negare che in un settore in cui avevano spazio pochissime professioniste, non si dovesse sgomitare il più possibile per restare a galla, anche a discapito delle altre. Ma la classifica in cui Raffaella e Mina erano chiamate a competere non prevedeva il confronto su alcuna abilità particolare: le diatribe riguardavano sempre e solo la bellezza o l’altezza delle due, insomma il loro aspetto. Sia mai che due donne potessero competere per qualcosa di diverso, oppure, ancora meglio che due donne potessero non voler competere affatto. Infatti, in tantissime interviste, Raffaella ha continuato a ribadire che fu tutto montato ad hoc. La sorellanza è uno strumento talmente potente che al patriarcato fa molta paura, praticarla é rivoluzionario sempre.
Raffaella si è fatta portavoce di libertà in qualsiasi ambito. Non solo invitava le donne ad assumere un ruolo diverso nelle relazioni sentimentali e sessuali, abbandonando l’ideale di amore a tutti i costi, ma tutto il pubblico a riconsiderare l’idea univoca di relazione.
In senso ancora più ampio rispetto alla reinterpretazione dei ruoli di genere, Raffa ha esplicitato l’esistenza di relazioni che uscivano dai binari dell’eterosessualità. Tutto ciò negli anni 70: con la morale cattolica imperante, lei invitava le masse a rivendicare il proprio spazio d’intimità e a farlo sempre alle proprie regole. “L’importante è farlo sempre con chi hai voglia tu”, l’importante é essere soggetti consenzienti. Questo è, parafrasato, il messaggio di Raffaella, un mantra che forse dovremmo ripeterci più spesso, per esercitarsi a essere meno controllanti circa le scelte romantiche e/ o sessuali delle persone intorno a noi. Insomma un me ne frego cantato in faccia alle convenzioni. Consapevolmente o meno, la Carrà ha acceso un riflettore su un’intera comunità che, da quel momento, ha trovato in lei un’alleanza preziosa. La potenza di quest’inno esce fuori i confini nazionali. I testi delle sue canzoni vengono tradotti in diverse lingue, Raffa partecipa a trasmissioni internazionali, e in veste di madrina al World Pride di Madrid, nel 2017. Un’icona pop per il movimento femminista tanto quanto per la comunità LGBTQIA+. Era in atto la rivoluzione culturale: attraverso le sue canzoni o le dichiarazioni in cui raccontava fiera: ” Voto sempre comunista”, o quando si é schierata, durante la diretta di Domenica In, dalla parte del movimento degli operai che chiedevano condizioni di lavoro più dignitose, cosa che fece scandalo nella TV degli anni 80 e che le costò il rinnovo del contratto in RAI l’anno seguente. Una showgirl in prima serata si azzardava a parlare di politica con indosso un boa di piume dimostrando quanto misoginia ancora interiorizzata c’era da decostruire.
L’immensa e variegata carriera di Raffaella Carrà sembra essere tenuta insieme dal filo rosso di una libertà che è troppo complicata per essere solo cantata, solo recitata, solo danzata. Raffaella la libertà se l’è presa in tutti i modi possibili, con o senza gentilezza, e sono state questa continua ricerca e le sue conquiste a renderla immortale. É infatti proprio quando il senso della nostra battaglia non é esclusivamente migliorare la nostra posizione per trarne un beneficio personale – errore spesso commesso dalle persone che semplificano il femminismo raccontandolo come la lotta delle donne per arrivare a occupare posizioni di potere tipicamente maschili – che si riesce a sconfinare nell’immortalità.
“Ogni volta che una donna lotta per sé stessa, lotta per tutte le donne”, scrive Maya Angelou poeta e scrittrice femminista afroamericana, e io penso che la storia di un’artista col caschetto di platino possa essere un esempio della collettività di questa lotta che ha capito che cantare in coro fa molto più “rumore”. La Raffaella che voleva ballare per sé stessa alla fine ha ballato per tutti.
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