25 aprile. La resistenza taciuta delle donne. Ridare parola ai corpi e ai cuori

22 Aprile 2021

“Io sarò sempre ribelle, è una parola che mi piace, lo sarò sempre…” (Elsa Oliva “Elsinki”)

 

Il 25 aprile 2005 per il 60° della Liberazione, presente il Presidente Ciampi, in piazza del Duomo, a Milano, tra gli oratori  parla anche Tina Anselmi, che fu partigiana da giovane, poi parlamentare e ministro. Ricordando l’ampio contributo delle donne alla Resistenza, Tina Anselmi disse: «Quella delle donne è stata detta la “Resistenza taciuta”, ed è stata resistenza largamente disarmata e nonviolenta».

La scelta di partecipare alla Resistenza dev’essere considerato un atto di grande coraggio, poiché le donne non erano costrette a decidere da che parte stare: educate e cresciute sotto il regime fascista, che le aveva relegate nel ruolo di madri e mogli, avrebbero potuto limitarsi a essere spettatrici degli eventi, senza prendere posizione. Invece molte, prendendo parte attivamente alla Resistenza, diventarono di fatto «volontarie della libertà».

L’ingresso delle donne nella Resistenza viene fatto risalire a un fatto del 1941: a Parma, il 16 ottobre, durante una violenta rivolta in seguito all’ulteriore diminuzione giornaliera della razione individuale di pane, le donne assaltarono un furgone della Barilla che trasportava un carico di pane. Non appena si sparse la notizia, altre donne uscirono dalle fabbriche e formarono dei cortei spontanei in molte vie della città, le più politicizzate organizzarono le operaie e le casalinghe che manifestarono numerosissime, molte tra loro furono arrestate.

Questa protesta fu chiamata lo sciopero del pane e rappresentò un momento importante dello sviluppo del movimento di Liberazione. Da quel momento sempre più donne entrarono attivamente tra le file della Resistenza, sia in quella civile che nella lotta armata.

Angela Dogliotti, insegnante e formatrice, da sempre impegnata nel movimento non violento, ha individuato le tecniche nonviolente attuate dalle partigiane: non-collaborazione (rifiuto di obbedire a varie pratiche imposte dal regime); azioni di difesa civile, con molte forme di protezione della popolazione; azioni dirette di resistenza contro la guerra e l’occupazione nazista (scioperi, manifestazioni di protesta, stampa clandestina, propaganda nei mercati, commemorazioni ai funerali di vittime); depotenziamento della capacità offensiva dell’avversario (parlare ai soldati e alle guardie fasciste demotivandoli; fraternizzazione col nemico, messo in crisi trattandolo come essere umano col quale si ragiona; azioni di disarmo materiale dei nemici; spionaggio; inviti alla diserzione con volantini).

Molte di queste azioni furono organizzate e promosse dai “Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà” (GDD), fondati a partire dal 1943, la prima grande e unitaria organizzazione femminile, di matrice politica, ma non partitica, che giunse a contare fino a 70.000 iscritte.

La Resistenza, in Italia rappresentò una vera e propria rivoluzione sociale delle donne, riconosciute finalmente come cittadine e protagoniste, come portatrici di diritti civili e politici.

Rivoluzione già iniziata in parte nella prima Guerra Mondiale e durante i primi anni della Seconda, nel momento in cui moltissimi uomini partirono per il fronte. Oltre ad accudire la famiglia, le donne iniziarono sempre più a lavorare fuori casa e ad assumere spesso ruoli che erano sempre stati degli uomini. Ma soprattutto rivendicarono nuovi diritti, si presero spazi nella vita pubblica e sociale, assunsero un nuovo ruolo nella vita economica e lavorativa della società.

Vi furono anche partigiane combattenti: secondo gli studi, sarebbero state circa il 20% circa della categoria. Queste donne sono coloro che Lidia Martin ha definito “le poche feroci”.

Una considerazione va fatta rispetto ai differenti rischi corsi dalle donne, insieme a tutti quelli corsi anche dagli uomini. I rischi legati al genere e al corpo della donna spesso usato, violentato, straziato. Molte durante la detenzione e gli interrogatori, oltre alle altre torture, subirono anche l’offesa e la violenza dello stupro. Stupri che accompagnano le guerre degli uomini e che accompagnarono la repressione della Resistenza, ma che sono stati anch’essi per lungo tempo rimossi e taciuti. Quasi a voler sminuire l’eroismo delle donne che affrontarono i rischi connessi alle attività partigiane.

A guerra finita sulle donne partigiane è calato a lungo il silenzio: preoccupati di non dare un’immagine promiscua della Resistenza, in alcune città italiane furono addirittura i partigiani stessi a proibire alle partigiane di sfilare ai cortei della liberazione. Molte partigiane furono oggetto di sospetto e di emarginazione per aver passato del tempo in gruppi e organizzazioni in prevalenza maschili.

Celebrare il 25 aprile dev’essere, per giustizia, un ricordo di corpi e di cuori.

«Una volta, mentre facevo uno di questi viaggi, capita un bombardamento e un mitragliamento spaventoso. Mi butto giù dal treno, così come viene, e finisco in un prato. Mi buttavo sempre a terra col mio corpo sopra la valigia dal doppio fondo. C’erano documenti, cose importanti che dovevo portare al Comando. Così – dicevo – colpiscono me ma almeno salvo quello. Mi butto nel prato. Era primavera e nel prato c’erano delle viole, delle viole! E io…talmente mi piace la natura… mi faccio un bel mazzetto, durante tutto il bombardamento. E poi arrivo sul treno. Tutti mi han guardata così… Perchè io me ne arrivo lì, con le mie viole, tutta contenta. Si rischiava la morte però talmente c’era la gioia di vivere! Delle volte leggo che i compagni erano tetri. Non è vero. Eravamo sereni. Anzi, eravamo proprio felici, perchè sapevamo che facevamo una cosa molto importante» (Teresa Cirio, partigiana).

TAG: 25 aprile, antifascismo, Non violenza, questione femminile, Resistenza italiana
CAT: Questioni di genere, Storia

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