Due storie ebraiche, per ricordare che l’odio è il nostro vero nemico. Sempre

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27 Gennaio 2018

È strano ritrovarsi a scrivere di due libri che tra loro poco o nulla hanno da spartire. Uno ha un paio d’anni, l’altro pochi mesi. Uno è scritto da un’israeliana tra i 40 e i 50, Dorit Rabinyan, il secondo da un italiano poco più che ventenne, Simone Somekh. Si intitolano “Borderlife” (Longanesi) e “Grandangolo” (Giuntina). Storie belle, importanti. Coraggiosissime. Sincere fino allo scorticamento di sé.
​È stato un successo per entrambi. “Borderlife” ha stravenduto in patria ed è rimbalzato di nazione in nazione anche per essere stato messo all’indice, proibito nelle scuole, dal ministro dell’Istruzione del suo paese. “Grandangolo” ha affollato le molte presentazioni in giro per l’Italia, e subito, appena uscito, acquistato da un editore francese. La domanda viene spontanea: perché? Che cosa hanno in comune le esperienze di questa israeliana ebrea e di questo italiano ebreo così fuori dagli schemi?
​Detto in estrema sintesi: la risposta, credo, stia in una parola e nei suoi significati conseguenti. Identità, appartenenza, amore per sé e per l’altro anche quando l’altro è infinitamente, visceralmente diverso da te e per certi versi, chissà, magari addirittura inconciliabile. L’alterità, che può essere rappresentata da un individuo in carne e ossa, o anche da una scelta di vita, da un’esistenza in sé.
​Ed ecco la Liat di Rabinyan guardare l’uomo che le dorme accanto: «… come se non solo il tuo sonno fosse ancora latitante ma anche l’identità, come se anche l’identità vagasse ancora fra diverse dimensioni dello spazio e del tempo». Somekh in fondo parla di sé: «Ezra si chiedeva continuamente che ne sarebbe stato di lui; voleva dimenticare, nascondere per sempre la sua identità, condurre una vita normale, ma poi ripiombava nelle sue crisi di panico e si accorgeva che nulla sarebbe mai stato normale per lui».

Ma andiamo per ordine, raccontiamo un po’ di più, senza svelare i finali.
​Autunno newyorkese, il secondo senza le Torri. Liat ama Hilmi, un giovane palestinse, Hilmi ama Liat. Lei racconta in presa diretta, lui è il co-protagonista. Liat la voce narrante di “Borderlife”, lui per certi versi il riflesso di lei. Speculari.
​Comunità haredì, ultraortodossa, vicino a Boston. Ezra, lo studente di yeshivà che sogna di uscire da un ambiente per lui opprimente, soffocante. Ezra che soffre come mai prima in vita per il suo unico amico-quasi-fratello Carmi, omosessuale nascosto in un mondo iperprotettivo e onnipotente di individui che della omosessualità – come di infinite altre esperienze – non riescono neppure a pensare, davvero, che cosa sia.

​Una grande storia d’amore tra una telavivina, traduttrice, negli States con borsa di studio, che ha servito nell’esercito, adora la propria famiglia, e lui pittore che si arrabatta a Brooklyn dando lezioni di arabo, e dipinge tele dove c’è sempre un bambino che dorme e sogna il mare, quel mare di cui ragazzo, dal nono piano della casa di Ramallah, poteva intravvedere solamente un lembo di colori, infinite tonalità di blu e di azzurro che ora gli imbrattano le mani e il volto. Liat è spigliata, moderna, con in tasca il biglietto di aereo la cui data indica inequivocabilmente la scadenza forzata del visto e del suo immenso, lacerante, profondissimo innamoramento per gli occhi grandi color cannella di Hilmi, per quei riccioli neri, quel sorriso infantile che intenerisce il cuore. Nella Grande Mela, pur tra mille paure di essere scoperta (lei), (entrambi) tra innumerevoli sensi di colpa – verso che cosa esattamente?, le proprie famiglie? il proprio popolo?, la propria storia? – la felicità può essere vissuta, come si può vivere la rabbia, la gioia, il sogno, il furore, la passione, la delusione, il desiderio, la malinconia per il medesimo sole e il medesimo cielo “di casa”, per quei profumi dispersi nell’aria.
​«Vi siete preoccupati così tanto di far combaciare tutti i pezzi che avete perso di vista quelli più importanti. Volevate una comunità e vi siete lasciati scappare la famiglia. Volevate Dio e vi siete dimenticati degli uomini. A volte penso che abbiate guardato alla realtà attraverso un grandangolo: pur di allargare gli orizzonti, avete permesso che la vista degli oggetti in primo piano venisse deformata». Sono le parole, spietate e senza appello, che Ezra grida in faccia alla madre quando inizia il lento e definitivo allontanamento da quella casa, da quella comunità, da quella vita. E la durezza, l’asprezza, sia del tono che del contenuto è pari soltanto al dolore di pensarlo, di confessarlo a se stesso prima ancora che di pronunciarlo.

Ma in tutto “Grandangolo” la realtà è vissuta, immortalata in maniera deformata. Poiché l’identità evolve, non è immutabile. Però un nucleo duro, un hard core esiste, e non si riesce/può/vuole cambiarlo nemmeno fotografando e percorrendo la vita da mille visuali differenti. Ferite mai completamente medicate. Da Brighton a New York, passando per il Bahrein in tumulto, altrove e altrove, fino a Tel Aviv. Alla perenne ricerca di una patria, la patria di se stessi.
​Patria. Patrie. Uguale il sole, identico il mare. Dorit Rabinyan ci parla di donne e uomini di un paese diviso, ma guidandoli/ci verso quei territori dell’anima che nessuno potrà mai né occupare né liberare. Liat e Hilmi cercano di superare la tensione amara che li aggredisce ogni volta che su di loro cala l’ombra della guerra lontana, un fantasma spesso sconfitto dal sentimento che li lega poderosamente e contemporaneamente rinfocolato dai pregiudizi in cui entrambi sono cresciuti. Sanno che al termine della borsa di studio di Liat, alla morte del “sogno”, si perderanno anche se in Israele abitano a settanta chilometri di distanza e assurdamente hanno le stesso prefisso telefonico. “Borderlife” ci porta dritti in mezzo a una inestricabile verità apparentemente senza senso, ci fa ballare tra spensierate feste un poco bohemienne, piangere su una gelida panchina di Manhattan, coltivare la speranza là dove una carezza, un abbraccio stretto stretto stretto, un bacio languido ci portano via dalla realtà.
​Diversità in senso lato e in senso stretto, è questo il collante più indelebile su cui Simone Somekh si fa conoscere pian piano nella epifania dei rapporti più veri e fondanti di Ezra: quello con la laica zia Suzie e quello con Carmi, fratello adottivo perché orfano di madre che solamente a lui riesce a svelare il tragico segreto. «Provai un leggero fastidio all’idea che fosse lui a sentirsi diverso, quando ero sempre stato io quello diverso e ritenevo che sempre avrei portato sulle mie spalle quell’immagine di me stesso. Diverso dai miei genitori, diverso dai miei compagni della Nachmanides, così come ero stato diverso da quello della yeshivà, diverso dai bostoniani che vedevo in metropolitana ed ero diverso dagli studenti asiatici che fotografavo a Cambridge. A volte credevo di essere diverso per definizione. Carmi, invece, non mi sembrava affatto diverso; disgraziato sì, sensibile anche, speciale di sicuro, ma nessuno l’avrebbe definito “diverso”. era solo un ragazzo con un’enorme tragedia alle spalle. O almeno così l’avevo sempre pensato».

Che in “Grandangolo” la fotografia sia elemento narrativo fondamentale è già scritto nel titolo. La fotografia come elemento letterale e come metafora. Non è uno strumento, un materiale di scena: è protagonista prima della ribellione di Ezra e poi della sua realizzazione professionale. Anche lo stile narrativo di “Borderlife” è per immagini. Fotogramma dopo fotogramma ecco prendere corpo scenari che si compongono di sensazioni, gusti e visioni unite in una unica spirale che qualcuno può definire destino.
​Pensate siano due romanzi tristi? Non lo sono, almeno in senso stretto. Indipendentemente dai finali, tra loro opposti, non si tratta di due letture cupe. Ho avuto modo di domandarlo personalmente a Somekh: «Come hai fatto a mettere in queste pagine tanto dolore e poca tristezza?». Non mi ha saputo rispondere. Ha sorriso e basta.
​Così come, se non facesse una rabbia pazzesca, se non provocasse un altro dolore spaventoso, farebbe in fondo sorridere anche il colloquio nonsense tra Liat e Hilit: «“E se non avesse nulla a che vedere con la terra?”. Rabbrividisco nel suo grembo. “Quale terra?”. “Quella per cui ebrei e arabi combattono da tanti anni”, continua con gli occhi chiusi e un’ombra di sorriso amaro sulle labbra, “Se invece riguardasse esclusivamente il sole, tutta questa guerra?”. Sembra sbigottito, quando bisbiglia: “Guarda tu, una guerra per il sole. Che roba!”».

Interroghiamoci allora. Lasciamoci aiutare da Dorit e Simone a capire gli incubi che la società non capisce, e non comprendendo trasforma in odio, paura, ritorno al passato più nefasto della storia. È semplice, alla fine è semplice: nessuno vuole, giustamente, perdere il proprio sé. Eppure, sono parole di Rabinyan, viviamo sulla stessa terra, respiriamo la stessa aria, mangiamo lo stesso cibo, abbiamo gli stessi ulivi, gli stessi fiori. Ci somigliamo in tutto. In Medio Oriente come in ogni angolo della terra.
​Proprio per questo la battaglia oggi più che mai fondamentale, vitale è difendere la propria identità salvaguardando fino all’estremo possibile quella altrui.

TAG: Dorit Rabinyan, Simone Somekh
CAT: relazioni

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