Mi sono chiuso dentro e non riesco più a trovare la chiave

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2 Aprile 2016

«Un attimo dopo, Alice s’era lanciata dietro di lui, senza considerare minimamente

come diavolo avrebbe fatto poi a uscire da lì»,

da Alice nel paese delle meraviglie

La vita ci ha già delusi troppe volte per rischiare di nuovo. Le delusioni ci induriscono il cuore e, delusione dopo delusione, diventiamo sempre più incapaci di aprirci alla gioia. Diventiamo diffidenti. Un po’ vogliamo crederci, un po’ cerchiamo di rimanere distanti.

I racconti dei vangeli dopo la Pasqua raccontano questa fatica di lasciarsi andare alla gioia: le porte del cenacolo sono chiuse. Il cenacolo sembra l’immagine di un cuore chiuso, un cuore trasformato in un sepolcro, nel quale la vita fa fatica a entrare.

C’è una specie di paradosso tra il sepolcro vuoto e il cenacolo chiuso: Dio ha trasformato un luogo di morte in luogo di vita e noi trasformiamo invece un luogo di vita in un luogo di morte. Il cenacolo è il luogo in cui Gesù ha dato la vita, il luogo in cui si è consegnato, il luogo in cui ci ha chiamato amici. Nonostante le porte chiuse del cenacolo (e del cuore), Gesù continua a entrare nella nostra vita, ma nonostante questa esperienza, dopo otto giorni, le porte sono ancora chiuse.

Per i Vangeli, la risurrezione non è un evento da archiviare per passare al prossimo obiettivo pastorale. I racconti del Vangelo descrivono invece con molto realismo la fatica umana di aprirsi alla gioia. Sentirsi dire che la morte non è più l’ultima parola, che la vita continua nonostante le nostre esperienze di morte, sentirsi dire che le pietre tombali possono essere rotolate, richiede tempo: le delusioni della vita ci hanno indurito e facciamo fatica a fidarci di nuovo.

Il nostro cuore, come il cenacolo, rimane chiuso sotto il peso della sofferenza. Rimaniamo schiacciati dal dolore della delusione. Nascondiamo le nostre ferite perché nessuno veda la nostra debolezza.

In questa società dell’immagine tutto ciò che richiama la fragilità, il decadimento, la malattia va esorcizzato, oscurato, rimosso. E invece, provocatoriamente, Gesù si fa riconoscere attraverso le sue ferite. La sua storia di dolore narra la sua identità. Gesù è anche quelle ferite, non le nasconde, ma le mostra.  Il dolore e la sofferenza fanno parte della nostra storia, dicono chi siamo.

Ma Gesù si spinge ancora oltre e ci insegna che è possibile portare vita agli altri proprio attraverso le nostre ferite.

Tommaso è l’immagine di ogni uomo che fa fatica a credere. Come tutti noi, Tommaso è didimo, cioè doppio, un po’ crede, o vorrebbe credere, un po’ è incredulo, diffidente. È la doppiezza che ci abita, la lotta tra la fede e il dubbio. Tommaso è gemello, nel senso che è il doppio di ciascuno di noi: ogni discepolo somiglia a Tommaso, siamo tutti l’altro Tommaso, discepoli che fanno fatica a credere.

Rimaniamo schiacciati sotto il peso delle nostre delusioni anche perché facciamo fatica a perdonare. Perdonare vuol dire lasciare andare, proprio come un soffio. Se le porte del cuore restano chiuse, la rabbia continua ad abitare la nostra vita, rendendola buia e ammorbando l’aria che respiriamo. Solo se apriamo le porte del cenacolo, possiamo lasciare andare la rabbia che ci abita. Solo il perdono ci ridona la pace, apre le porte e cambia l’aria.

*

In copertina, René Magritte, La Victoire (1939)

 

Testo

Gv 20, 19-31

Leggersi dentro
In che condizioni sono le porte del tuo cuore?
Come reagisci nei tempi di delusione?

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CAT: relazioni

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