Perché il terrorismo non è una guerra di religione

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1 Agosto 2016

La partecipazione di migliaia di musulmani alla messa domenicale del 31 luglio ha suscitato in larga parte dell’opinione pubblica plauso e approvazione. Non sono mancate tuttavia le voci in disaccordo. Due esempi, fra i vari possibili. Monsignor Antonio Livi, filosofo e professore emerito della Pontificia Università Lateranense, ha scritto: «La nostra condizione di cattolici ci impone in termini assoluti (cioè, non in termini relativi a qualche convenienza politica del momento) di professare in ogni luogo e in ogni tempo la nostra santa fede, il cui nucleo fondamentale è il mistero della Santissima Trinità e il mistero dell’Incarnazione del Verbo, che è Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo. Professare questi misteri della fede non è compatibile con l’invito, rivolto ai musulmani, di riunirsi con i cattolici nelle chiese cattoliche per manifestare i propri sentimenti di pace». Dal fronte opposto Saifeddine Maaroufi, imam di Lecce a capo di una comunità di circa 22 mila musulmani in tutto il Salento, ha dichiarato: «Per noi i luoghi di culto sono importanti, sono luoghi sacri. Per l’Occidente laico potrà sembrare qualcosa che ha a che fare con il folclore ma il Corano afferma “A voi la vostra religione, a me la mia”». E poi ha aggiunto: «Vogliono che andiamo in chiesa a pregare: la prossima volta che cosa dovremo fare, giurare su un crocefisso? Convertirci? C’è un’asticella che va ogni volta alzandosi e che non possiamo accettare. Dobbiamo vincere la diffidenza che ci circonda ma rimanendo fedeli a noi stessi».

Due posizioni che, agli antipodi, si toccano. E che svelano perché parlare di “guerra di religione” sia fuorviante. Una religione, infatti, chiede ai propri aderenti la professione di un determinato culto, una pratica ispirata a certi precetti, la condivisione di un modo di vedere il mondo, di leggere la storia a partire da un momento giudicato sorgivo. I “credenti”, inoltre, si riconoscono per il tentativo quotidiano di aderire a una legge tramandata, sia nei libri sacri sia nella tradizione canonica, e per l’osservanza alle indicazioni di un’autorità religiosa. È un profilo che non corrisponde a quello dei due sgozzatori di Rouen né alla fisionomia dello stragista di Nizza. Ma è un profilo in cui difficilmente si riconoscerebbero i giovani di presunta fede cristiana, checché ne dicano i difensori della civiltà occidentale e dei presepi nelle scuole. Basta leggere l’ultimo libro del sociologo Franco Garelli Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio? (Il Mulino, 2016, pp. 231, € 16) che attraverso 1.450 questionari e 144 interviste dirette a un pubblico di 18-29enni sottolinea non tanto «un tracollo religioso negli ultimi anni, come spesso descritto, ma una prosecuzione della “secolarizzazione dolce” caratteristica del nostro paese».

A questa «secolarizzazione dolce» si oppone quella violenta interna all’universo musulmano dominato da pulsioni identitarie che spesso usano l’Islam come collante, tanto che “Allah Akbar” suona in bocca ai terroristi come uno slogan privo di reale contenuto. In sostanza, alla mutazione carsica del cristianesimo in religione civile dell’umanesimo e dei buoni sentimenti (secolarizzazione dolce) fa da contraltare quella dell’Islam propugnatore esclusivamente della jihad voluta dall’Isis (secolarizzazione violenta). «Tutte le religioni vogliono la pace» ha detto papa Francesco. Solo che trovare oggi persone veramente religiose, da entrambe le parti, è merce rara.

@citizengreco

TAG: Attentato Rouen, cristianesimo, dialogo tra le religioni, islam, messa, strage di Nizza
CAT: Religione, Terrorismo

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