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Benessere

Come proteggersi dal vittimismo e vivere più sereni

di Giulia Dellepiane
27 Febbraio 2018

È umano sentirsi vittime della vita in determinate circostanze. Per problemi di salute, per aver perso il lavoro, per essere stati lasciati dal partner e mille altre ragioni. Può capitare a tutti di sentire che la vita è ingiusta e che il destino si sta accanendo contro di noi. Però, passata una comprensibile fase di sconforto, è altrettanto umano reagire, guardare avanti, tornare a progettare il futuro che sogniamo.
Tuttavia, a volte non riusciamo a uscire dalla trappola del vittimismo, continuiamo a piangerci addosso e – quello che è peggio – a lamentarci con gli altri, pretendendo da loro comprensione e riguardi particolari, come se fossero loro a dover risarcirci delle nostre sofferenze, anche se non sono responsabili. Ma il vittimismo continuo dove ci porta? Lo abbiamo domandato a Emanuela Mazzoni, psicologa specializzata in counseling relazionale e coautrice del libro “La Scienza Relazionale e le malattie mentali”.
Perché ci capita di sentirci vittime della vita che è ingiusta e quindi in credito con il mondo?
«L’essere umano nella sua umile condizione ha paura ed essa prende molteplici forme. Nel mio lavoro la incontro sotto la forma della paura di prendere l’ascensore, paura di uscire, paura di perdere la compagna e via elencando. Siamo vittime di un mondo che non ci è dato comprendere, che studiamo dalle più infinitesimali particelle alle più lontane galassie, ma in realtà siamo piccoli e fragili di fronte al tutto.
E tutti sperimentiamo la sofferenza: dalle più elementari, come la fame e la sete o i dolori del corpo, alle sofferenze affettive, emotive e psichiche, fino alle quelle dell’anima.
La condizione dell’essere umano è davvero svantaggiosa siamo un puntino microscopico nell’universo e ne siamo consapevoli. E qui viene la svolta».
Cioè?
«Una volta presa consapevolezza di tutto questo ho due scelte (che comunque non si escludono): se mi chiudo in me stesso divento una vittima egocentrica, se invece faccio lo sforzo di vivere almeno fino infondo la strada del miglioramento, per lo meno aggiungo al mio essere vittima anche la speranza di poterci fare qualcosa, se poi unisco la fiducia sono una vittima con la speranza di poter migliorare la mia condizione e raggiungere una qualche felicità nella vita.
Il passaggio dalla vittima al vittimismo non è scontato: è lo stesso che c’è tra l’abusato e l’abusatore. Il vittimismo si sviluppa nel momento in cui la vittima usa il suo dolore, per contagiare altre persone, come se qualcun altro, assumendo i suoi dolori su di sé possa liberarla dal suo vissuto. Così facendo invece istiga, manipola e logora gli altri, creando equivoci e generando incomprensioni».
Quindi non si può mai scaricare i propri problemi sugli altri?
«No, ad esempio è diverso aprirsi nei gruppi di incontro o di auto-aiuto, in cui le persone raccontano i loro dolori e le difficoltà che vivono o hanno vissuto, sapendo che gli altri sono loro simili e vicini, e usano la forza del gruppo o l’empatia esistente nel clima relazionale per aumentare la forza interiore, trovando una via d’uscita dalla propria condizione che sia praticabile».
Come possiamo difenderci da chi si comporta come se fosse sempre in credito con il mondo?
«La violenza con cui il vittimista esterna la propria rabbia contro il mondo, che sia tramite gesti, parole o immagini (non scordiamoci dei social), investe l’ignaro malcapitato che può solo chiudersi a riccio per non ricevere l’attentato. Un’altra tecnica del vittimista è quella di costruire una dipendenza in cui l’altro si sente come il solo che possa aiutarlo e salvarlo dalla sua situazione. È facile riconoscere questo modello relazionale perché in questi casi la critica reciproca è tabù: non ci si possono fare appunti, sono vietati i litigi e ogni forma di dissenso».
E quindi?
«Il modo più semplice è fare il “pesce in barile”, ovvero assentire ma poi non agire nella direzione in cui si è stati istigati, che è esattamente ciò che i vittimisti contestano agli altri. Un’altra forma più raffinata è quella di ascoltare il vittimista, dargli appuntamento a una certa ora in un determinato posto (che non sia uno di quelli in cui ci si incontra di solito) e, scusandosi per avere solo 10 minuti perché si è avuto un contrattempo, dirgli come potrebbe fare ad uscire dal pantano in cui è, o per lo meno verso quale direzione muovere il primo passo, poi, prima della sua replica, dileguarsi. Da allora in poi si sarà bombardati da richieste di contatto ed appuntamenti, da evitare accuratamente, replicando solo: “Spero tu ce la faccia prima o poi ad uscirne”. Il segreto è non mollare mai il punto. Ogni volta che l’altro aprirà il discorso, questo dovrà essere chiuso il prima possibile con la solita frase.
Questo è uno dei modi efficaci per mettere il vittimista di fronte ad una possibilità, che è quella incarnata da chi gliel’ha proposta. Nella mente del vittimista questo scatenerà una grande rabbia, che potrà essere l’innesco di un reale cambiamento».

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