Dottori di ricerca in classe? Per carità!

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14 Dicembre 2014

Mentre il governo presenta le sue proposte, sul Domenicale del Sole 24 Ore una nuova boutade sulla buona scuola, che avrebbe come conseguenza la distruzione degli unici criteri che dovrebbero valere nella selezione degli insegnanti. Eccola: assumere d’ufficio in qualsivoglia scuola chi ha svolto un dottorato di ricerca.

Sì, avete capito bene. Chi si è laureato e poi ha continuato a studiare all’Università nel campo della ricerca, giungendo al termine degli studi, con relativa pubblicazione di una dissertazione, dovrebbe poter essere assunto direttamente dalle scuole, senza ulteriori concorsi o abilitazioni (o formazione).

Magari qualcuno di voi si trova d’accordo con la proposta di Claudio Giunta, pubblicata il 14 dicembre 2014. Perché no? In fondo, si tratta di giovani dotati, qualificati, che magari conoscono una lingua straniera, certo con più titoli dei loro concorrenti precari della scuola, insomma perché no? Invece di farli restare all’Università per lavorare a titolo gratuito, o invece di far loro svolgere qualche lavoretto poco retribuito?

Adesso vi spieghiamo perché no. Innanzi tutto, se hanno puntato esclusivamente alla carriera accademica o alla ricerca, e non hanno avuto successo in quel campo, perché dovrebbero essere riciclati in un altro campo, che richiede competenze specifiche?

No, per fare l’insegnante occorre avere competenze didattiche, cioè, conoscere i metodi con cui si insegna, studiare tutta una serie di normative e conoscere una serie di nozioni indispensabili sui bisogni specifici dell’apprendimento, sulle disabilità a scuola, sui diversi metodi di lavoro, sulla valutazione degli studenti. E questo studio, ammesso che si possa mai considerare concluso, richiede anni di lavoro. Occorre poi fare pratica di insegnamento (tirocinio guidato). Certo, tutte cose che anche un dottore di ricerca potrebbe fare. Appunto, potrebbe fare, anzi dovrebbe, prima di essere chiamato a insegnare.

Si possono criticare i percorsi formativi o i tirocini offerti dalle università negli ultimi anni, ma di fatto questi percorsi mirano a risolvere un problema storico: la scuola italiana ha sempre presupposto nei laureati l’esistenza di competenze didattiche invece inesistenti. I laureati italiani (a parte quelli che hanno studiato scienze della formazione) non sono in possesso di una competenza innata all’insegnamento. È un duro lavoro che si apprende un po’ per volta, e che richiede la formazione di un professionista dell’educazione.

No, da laureati (in filosofia, lingue, scienze dell’educazione), abilitati (all’insegnamento nella scuola secondaria superiore), addottorati (in filosofia in Germania) e formatori di nuovi docenti (Università degli Studi di Milano) non ammettiamo scorciatoie. Prima di assumere una persona con un dottorato di ricerca la dobbiamo valutare, come tutte le altre, ed eventualmente formare: il percorso del tirocinio formativo attivo dura un anno, non è un compito sovrumano, ammesso che si superi l’esame di ammissione…

La buona scuola non sia il rifugio di chi non ha niente di meglio da fare. La scuola italiana lo è già stata per troppo tempo.

Techne Maieutike

TAG: dottori di ricerca, Galateo della discussione, insegnamento, LA buona scuola
CAT: scuola

6 Commenti

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  1. marco.ragonese 10 anni fa

    caro andrea, credo che la questione sia importante ma – sarà il titolo? – lascia un retrogusto poco piacevole. Sostengo da tempo che essere preparati in un argomento significhi saperlo insegnare, ma questo vale anche per coloro che apparentemente hanno le “carte” in regola. Da dottore di ricerca, ho conseguito l’abilitazione con un PAS che, senza ombra di dubbio, è stata l’esperienza didatticamente più deprimente della mia vita. Insegnanti demotivati, spinti soltanto dalla voglia di ottenere il “pezzo” di carta con cui – era una convinzione comune all’inizio del corso, nonostante non ci fosse alcuna traccia di ciò – avrebbero finalmente avuto il “posto”. Docenti che copiano durante le prove, che si lamentano peggio degli alunni, che “tanto non serve a niente”. Il problema, alla luce di questa mia doppia “identità” didattica, rimane il sistema di reclutamento, basato su dati quantitativi (il punteggio) e non qualitativi (valutazione?).

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    1. andrea.gilardoni 10 anni fa

      Caro Marco, grazie per la replica. Sì, hai ragione, i docenti che ho visto durante la silsis e il tfa (no, non ho voluto né potuto lavorare per i PAS, temo che tu abbia assolutamente ragione) erano talvolta demotivati (specialmente i precari storici senza alcuna possibilità)i, e spesso la pessima didattica (cioè l’assenza di didattica) dei corsi universitari contribuiva a renderli ancora più depressi. Tuttavia, una volta motivati, i depressi sono diventate persone con cui avere scambi molto interessanti. I corsi di formazione dei docenti vanno ripensati da cima a fondo, almeno in alcune università, però questo è un problema diverso. A gennaio forse lavorerò ancora come coordinatore di tirocinio per il TFA e coinvolgerò un po’ di più anche i miei tirocinanti in una riflessione ad ampio raggio.
      Il titolo voleva essere una replica a una proposta che ritenevo superficiale, quindi l’ho scelto consapevolmente, ma è chiaro che non mi oppongo in linea di principio ai dottori di ricerca in classe, anzi. Io sono uno di loro…
      Però, forse, bisognerebbe pensare sin dall’inizio a due percorsi differenziati, come si fa in Germania (Magister Artium se fai ricerca e punti al dottorato, Lehramt se vuoi insegnare), invece di mettere in piedi il baraccone delle abilitazioni.
      Sulla valutazione riflettiamoci insieme.

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  2. marco.ragonese 10 anni fa

    leggi: “Sostengo da tempo che essere preparati in un argomento NON significhi saperlo insegnare”

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  3. naciketas 10 anni fa

    Io ho un dottorato di ricerca, ho pubblicato dieci libri e sono abilitato all’insegnamento universitario. Cosa che non mi impedisce di insegnare – credo bene – in un istituto professionale.
    Uno dei mali della scuola italiana è la separazione tra insegnamento e ricerca. Un buon docente è anche un ricercatore nel suo campo disciplinare. E sarebbe ottima cosa se questa ricerca – attualmente a proprio rischio e pericolo – venisse riconosciuta.

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  4. sara-fumagalli 10 anni fa

    “Dottori di ricerca in classe? Magari!”, un mio ipotetico titolo sulla questione sarebbe stato sicuramente questo. Previa prova sul campo, certamente. Se poi si pensa che molti di loro prima di addottorarsi si sono divisi tra supplenze saltuarie dalla terza fascia (in via di estinzione adesso, ma dalla quale la scuola ha generosamente attinto in questi anni) forse non abbisognano neanche di esperienza. Perché non misurare in qualche modo i risultati? Ho vissuto tre anni in Germania ed un pochino il sistema di formazione all’insegnamento tedesco lo conosco e mi pare che abbia poco o nulla a che fare con il nostro TFA. Copiare quello sarebbe stato sicuramente meglio, piuttosto che fare all’italiana. Sulla conclusione la penso esattamente come te: “La buona scuola non sia il rifugio di chi non ha niente di meglio da fare”. Ecco, pensiamo a com’è ora. E a come la alzerebbero di livello i dottori di ricerca che volessero ad essa dedicarsi con passione.

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    1. andrea.gilardoni 9 anni fa

      Scusa il ritardo, cara Sara Fumagalli. In effetti, i dottori di ricerca nelle classi ogni tanto ci sono, ma non si distinguono per il livello di competenze didattiche. Semmai, disciplinari. Manca il percorso di formazione, che sia quello del TFA o quello tedesco (io sono abilitato all’insegnamento del tedesco agli stranieri, ma in Germania).

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