UE
La lezione di Willy Brandt. 55 anni dopo
7 dicembre 1970.
Herbert Ernst Karl Frahm, al secolo Willy Brandt, cancelliere della Repubblica Federale tedesca è a Varsavia per firmare uno storico trattato che riconosce le linee di frontiera successive alla Seconda guerra mondiale; auspica e sancisce l’avvio di rapporti di reciprocità e di scambi commerciali, culturali, tra i due paesi. Di fatto l’inizio di un rapporto diplomatico rimasto in una “terra di nessuno” per un quarto di secolo, dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Il protocollo del viaggio in Polonia era scritto e imposto. Egli avrebbe dovuto recarsi a rendere omaggio al Monumento ai Caduti per poi andare al Monumento agli Eroi del ghetto di Varsavia, poi la ratifica dell’accordo.
Brandt dunque si reca al monumento dei Caduti. Depone una corona di alloro, mette la sua firma nel libro di visitatori. La scena è composta. Poi si reca al monumento agli Eroi del ghetto di Varsavia. Accompagna la deposizione della corona. Poi fa un passo indietro. E si inginocchia.
Tutte le riprese documentarie di quella scena registrano il silenzio, inquadrano lo sguardo dei giornalisti intorno e delle autorità polacche sono completamente superati dal gesto. Non si sente una parola.
Anni dopo, tornado a quella scena Brandt scrive:
“Mi è stato chiesto molte volte che cosa significasse quel gesto. Era stato forse premeditato? No, non lo era stato. I mei più stretti collaboratori non furono meno meravigliati dei giornalisti e dei fotografi che erano accanto a me e di quelli che erano rimasti fuori dalla scena perché non si aspettavano niente di «nuovo». Non avevo alcun piano, ma avevo lasciato il castello di Wilanow, dov’ero alloggiato, con la sensazione di dover esprimere la particolarità della commemorazione dovuta al monumento del ghetto. Di fronte all’abisso della storia tedesca e sotto il peso di milioni di esseri umani assassinati, feci quello che gli uomini fanno quando la parola viene a mancare” [Willy Brandt, Memorie, pp. 227-228].
Willy Brandt, è a Varsavia per firmare uno storico trattato di pace che di fatto è anche la riconciliazione con il paese invaso dall’esercito della Germania del III Reich poco più di trenta anni prima l’1 settembre 1939. Nei mesi precedenti, il 12 agosto 1970, era stato a Mosca per firmare un analogo accordo.
Mosca, e poi Varsavia il percorso allora più corto, comunque meno problematico per riuscire ad arrivare a Berlino Est, l’altra metà della città di cui era stato borgomastro (3 ottobre 1957 – 1 dicembre 1966). Discutere di Berlino voleva dire aprire un varco nella divisione sancita dal muro. È quello che avverrà il 3 settembre 1971 con l’accordo tra le due Germanie in cui si stabilisce che i cittadini di Berlino Ovest potevano recarsi in visita a nella DDR e a Berlino Est; era consentito traffico stradario, fluviale, ferroviario. Che era possibile andare al di là del Muro non solo per motivi famigliari, ma anche per ragioni umanitarie, religiose, culturali, turistiche.
Riaprire il flusso con la Germania Est, significa per Brandt, pensare anche a una Europa nuova, oltre le divisioni.
Dunque Willy Brandt, Cancelliere della Repubblica Federale tedesca, doveva fare vari riti di passaggio tutti segnati dal trovare la via della distensione e della riconciliazione.
La Germania rimaneva ancora, al di là dell’Elba il paese invasore che trenta anni prima in maniera fulminea aveva dissolto la repubblica di Polonia in tre settimane e nel giro di meno di un anno «agguantato» buona parte dell’Europa sud-orientale. Poi era il Paese che ricordava un genocidio (in quel momento era ancora ambigua la distinzione tra ebrei polacchi e polacchi, per le genti di Polonia).
Forse mai nella storia superare la soglia di un confine è stato così lungo.
Allo stesso tempo, proprio perché superarlo non era il risultato di un accordo diplomatico, ma la conseguenza di un atto che inaugurava un “nuovo tempo”, occorreva che la politica si concretizzasse in un gesto, non solo nelle buone intenzioni o nelle parole di prammatica delle dichiarazioni. Perché la storia è sicuramente decisioni, rinunce, o affermazioni. Ma prima di tutto è gesto. Meglio se non previsto.
È quello che accade a Varsavia, il 7 dicembre di cinquantacinque anni fa.
Oggi dobbiamo chiederci almeno tre cose che stanno dentro a quella scena e che hanno una diretta relazione con ciò che oggi viviamo.
- La politica, soprattutto quella dichiaratamente laica, non ha le parole per comunicare le emozioni. Per cui i gesti che adotta appartengono al segno della sfera del religioso che non la rappresentano: la potenza di quell’atto più che sorprenderci dovrebbe indurre a chiederci: il linguaggio della laicità è capace di avere gesti propri capaci di comunicare emozioni?
- Quella scena, preparata o no, se è raccontata da Willy Brandt come il gesto liberatorio, che marca un prima e un dopo, non fu accolta con questa sensibilità né in Germania, né in Polonia. Per molti in Germania quel gesto voleva dire responsabilizzarsi di un atto non loro; in Polonia voleva dire riconoscere un primato alle vittime” non polacche”. Quanto quelle reazioni parlano ai sentimenti odierni?
- Superare le divisioni e pensare una nuova Europa, per Brandt voleva dire (lo dirà a Oslo e poi a Stoccolma, nel dicembre 1971 all’atto di ricevere il Premo Nobel per la pace e lo dirà il 26 settembre 1973 nel suo primo discorso all’ONU quando le due Germanie sono ammesse, insieme, a farne parte,): congiungere Ostpolitik e le premesse dei temi del rapporto Nord/Sud.
Ovvero: pensare una linea politica che ha come punto di riferimento una idea di sviluppo: condiviso e comune. Più di mezzo secolo dopo quella sfida fa ancora fatica a affermarsi
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