Italia
Le periferie dimenticate
La sicurezza non nasce dalla sorveglianza. Nasce dalla giustizia, dalla prossimità, dalla presenza. E dalle periferie che nessuno vuole più guardare
Si parla di sicurezza. Sempre. Ma a quale prezzo? In un’Italia attraversata da disuguaglianze crescenti, le periferie non sono più luoghi di passaggio o margine. Sono diventate il cuore pulsante di un disagio sistemico. Non basta pattugliare una strada per renderla sicura. Non basta aumentare la presenza di forze dell’ordine per curare un quartiere ferito. La sicurezza, quando viene separata dalla giustizia sociale, smette di essere protezione e diventa esclusione.
Si dimentica che la paura non nasce nei reati, ma nell’abbandono. Non cresce nei numeri, ma nei vuoti. Il vuoto dei servizi, della fiducia, del tempo condiviso. Le periferie non sono pericolose. Sono ferite.
Ferite che non fanno rumore. Che si aprono lentamente, quando chi abita quei luoghi si accorge che non conta più. Che nessuno lo ascolta. Che ogni gesto di resistenza, ogni forma di comunità, è ridicolizzata o ignorata. Le città si rimpiccioliscono. Ma non fisicamente. Si rimpiccioliscono nel pensiero.
“La città, come i sogni, è fatta di desideri e di paure.” Così scriveva Italo Calvino. Le periferie non sono fuori dalla città. Sono dentro. Ma nessuno le vede.
Eppure ci sono. Ci sono sempre. Anche quando la cronaca non se ne occupa. Anche quando diventano soltanto una statistica o un caso di ordine pubblico. Ma la vita non è un caso. È un tessuto. E quando un filo si strappa, tutto perde tenuta.
Le periferie erano piazze, cortili, oratori, scuole aperte anche il pomeriggio. Erano panchine con storie intrecciate, madri che si conoscevano per nome, vecchi che insegnavano a restare. Ora sono attraversamenti. Punti ciechi della città. Luoghi dove si va solo per lavorare o per controllare. Dove si resta soltanto per necessità.
Non è l’insicurezza che cresce. È la solitudine. La solitudine dell’invisibile. Del disoccupato che non trova voce. Del ragazzo che non ha accesso a nulla. Dell’anziano che vive tra le ombre di un quartiere svuotato.
La sicurezza non può essere costruita con i codici penali. Va costruita con i codici umani. Serve una scuola che non selezioni per censo. Una sanità che non distingua tra chi può e chi non può. Una presenza dello Stato che non sia solo controllo, ma prossimità.
Non servono proclami. Servono luoghi di incontro. Servono relazioni. Serve la possibilità, concreta e quotidiana, di ricominciare.
Non basta ristrutturare un edificio per dire che una periferia è stata riqualificata. Serve ristrutturare il senso di appartenenza. Serve una pedagogia del legame. Un’economia della vicinanza. Un’etica della lentezza.
Perché non è vero che chi sta ai margini non vuole partecipare. Vuole farlo. Ma non ha gli strumenti. Non ha l’occasione. Non ha la fiducia. E senza fiducia non c’è cittadinanza.
Periferia non è solo una condizione geografica. È una condizione sociale. Esistenziale. È ciò che si lascia fuori. È ciò che non si ascolta. È la voce che si perde tra le corsie vuote di un supermercato alle otto di sera. È la stanchezza che non trova casa. È la preghiera muta di chi ogni giorno ricomincia senza essere visto.
La vera sicurezza non si misura in numeri. Ma in sguardi. In mani che si tendono. In luoghi che non chiudono alle diciotto. In parole che non giudicano. In presenze che restano.
Perché un quartiere è sicuro non quando non ci sono reati. Ma quando non c’è vergogna. Quando nessuno è costretto a nascondersi. Quando il futuro, anche il più incerto, può ancora essere condiviso.
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