Geopolitica
Rabat: dare voce alle vittime africane del terrorismo
Il primo giorno della Conferenza internazionale dedicata alle vittime africane del terrorismo, aperta martedì a Rabat, segna un momento cruciale nel riconoscimento della sofferenza umana causata dall’estremismo violento nel continente. Scegliendo Rabat come luogo di incontro, il Marocco riafferma il suo ruolo di piattaforma africana per il dialogo strategico, la cooperazione in materia di sicurezza e la diplomazia umanitaria. Organizzata dal Ministero degli Affari Esteri con il sostegno dell’UNOCT (Ufficio delle Nazioni Unite per la lotta al terrorismo), questa conferenza mira a mettere le vittime al centro del dibattito, non come semplici statistiche, ma come attori di memoria, resilienza e trasformazione sociale.
Durante due giorni, rappresentanti di governi africani, istituzioni internazionali, organizzazioni regionali, associazioni civili, famiglie delle vittime, ricercatori ed esperti si confrontano sulle conseguenze del terrorismo e sui meccanismi di sostegno psicologico, giuridico, finanziario, educativo e comunitario necessari per aiutare i sopravvissuti a ricostruire la propria vita. La conferenza affronta anche il ruolo che le vittime possono svolgere nelle campagne di prevenzione, nella sensibilizzazione dei giovani e nella riconquista narrativa contro i discorsi di odio e radicalizzazione.
Il terrorismo in Africa non si presenta in una sola forma. Non è monolitico. È mutevole, multiforme, radicato in dinamiche diverse. Questa conferenza sottolinea due verità fondamentali: da una parte, le popolazioni africane sono le prime e principali vittime del terrorismo; dall’altra, il terrorismo africano è spesso strumentalizzato con motivazioni che non sono religiose, ma profondamente economiche, mafiose, territoriali e politiche.
Oggi, gruppi armati si rivestono di un linguaggio religioso senza avere alcun fondamento spirituale autentico. Usano la religione come maschera ideologica, come camouflage emotivo, mentre i loro veri obiettivi sono il controllo delle risorse, la dominazione delle rotte commerciali, lo sfruttamento minerario illegale o l’indebolimento delle istituzioni statali.
In questo contesto le parole del Papa pronunciate a Nicea risuonano con forza: «Esiste una fraternità universale, indipendentemente dall’etnia, dalla nazionalità, dalla religione o dall’opinione. Le religioni, per loro natura, sono custodi di questa verità e dovrebbero incoraggiare i popoli a riconoscerla e praticarla… L’uso della religione per giustificare la guerra e la violenza, come ogni forma di fanatismo, deve essere respinto con fermezza.» Questo messaggio ricorda che la religione autentica non divide ma unisce, non giustifica il sangue versato ma invoca compassione, non santifica vendette ma invita al perdono e alla fraternità.
Prendiamo l’esempio della Nigeria. Spesso percepito dall’esterno come un conflitto religioso tra cristiani e musulmani, il terreno rivela un’altra realtà: dinamiche socio-economiche, lotte per la terra, per l’accesso all’acqua, per il petrolio, per le rendite locali. La religione diventa una bandiera dietro la quale si celano interessi finanziari enormi. Boko Haram, più che un movimento religioso, è un meccanismo di controllo territoriale ed economico che opera sotto una retorica islamista distorta.
Nella Repubblica Democratica del Congo la situazione è altrettanto drammatica. Nell’Est del Paese, il terrorismo si intreccia con lo sfruttamento illegale dei minerali strategici, in particolare il coltan, indispensabile per l’industria elettronica mondiale. Il terrorismo è usato come strumento di pressione e frammentazione territoriale, per mantenere instabilità e permettere il saccheggio continuato delle risorse naturali. Le identità etniche e religiose sono manipolate per nascondere calcoli economici spesso transnazionali.
In altre regioni dell’Africa, il terrorismo assume una forma politica. Bambini vengono reclutati e trasformati in armi. Alcuni movimenti separatisti li utilizzano come strumenti simbolici e mediatici, come scudi umani, per portare avanti obiettivi politici, spesso in connessione con interessi esterni. La vulnerabilità dei giovani è sfruttata da reti che promettono identità, appartenenza, sostentamento — al prezzo della loro innocenza e del loro futuro.
Di fronte a questa realtà, la conferenza di Rabat non si limita a mostrare i numeri della violenza. Dà la parola alle vittime. Riconosce il loro dolore ma anche la loro dignità. Perché dietro ogni attentato vi sono famiglie distrutte, comunità lacerate, vite traumatizzate. Rendere visibili queste voci, creare spazi di ascolto e testimonianza, è già una forma di riparazione. È un modo per impedire la ripetizione della storia, trasformando la sofferenza in responsabilità condivisa.
Uno degli obiettivi principali è incoraggiare i sopravvissuti a diventare messaggeri di pace. La loro conoscenza diretta della barbarie conferisce alle loro parole una forza unica. Possono smascherare le illusioni del radicalismo, denunciare i falsi miti dei gruppi armati e mostrare che la violenza non è mai un destino, ma una sconfitta morale.
La conferenza di Rabat incarna una nuova prospettiva: umanizzare la lotta contro il terrorismo. Non ridurla a un confronto militare, ma considerarla una battaglia culturale, educativa, della memoria e dell’umanità. Le vittime sono al centro di questa filosofia. Ricordano che il terrorismo, in tutte le sue forme, non è soltanto una strategia di terrore, ma soprattutto una tragedia umana. E ci ricordano una verità essenziale: le popolazioni sono le vittime, e i carnefici sono coloro che usano l’odio e la morte per servire interessi politici o economici.
Il raduno internazionale di Rabat è una promessa — quella di costruire un futuro africano dove nessuna voce ferita verrà ignorata, dove nessuna sofferenza sarà negata, e dove la solidarietà tra i popoli diventerà la risposta più forte alla violenza e al fanatismo.
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