Il mediocre, il mostro sempre più in voga
La normalità non è mediocrità. Da qui bisogna partire se si vuole ragionare del mostro non sempre riconoscibile e di successo dei nostri tempi: il mediocre. Ed è meglio farlo senza pensarci troppo, imprecando d’istinto, evitando le analisi in “sociologhese” e apparentemente efficaci degli osservatori “de coccio”, che non sanno spiegarsi la crisi stupidissima del loro matrimonio, figurarsi quella complessa della società contemporanea. Essere normali potrebbe significare semplicemente adeguarsi alle regole, lasciando perdere le posizioni estreme, vivendo nell’assenza di originalità e accantonando ogni concetto di ribellione. Ecco, per me questo è normalità, accettando ciò che è, quello che viene, ogni evenienza, bella o brutta, vantaggiosa, o meno. E, a dire il vero, le persone che decidono di ritagliarsi l’esistenza in questi spazi senza spifferi a me sono simpatiche e hanno finanche la mia ammirazione. Dirò di più, personalmente ambirei alla loro dimensione se non fosse per i diavoli in corpo che me lo impediscono! Non sarò un mostro, ma sono ugualmente mostruoso, alla maniera di chi coltiva febbrilmente interessi per scorgersi migliorato e ha inclinazioni al solfeggio letterario: Si-Re, Fa-Mi-Fa-Re, che Sol-Mi-Do-La-Sol-Fa!
Quindi, essere equilibrati, consueti e regolari non vuol dire affatto essere mediocri. E, nemmeno essere conformisti lo è. E si è agevolmente normali, giammai mediocri, anche nell’adozione acritica delle opinioni. Risulta orribilmente essere mediocre, invece, colui che, spinto dall’ambizione esagerata e impropria, fa e agisce incautamente, convinto che il tentativo di occupare una posizione di riconosciuto privilegio implichi un coraggio che altri non hanno. Il mediocre, per sua natura, laddove è capace di riconoscere la propria limitatezza, pensa di essere più furbo e concreto degli altri. Ma, una mediocrità che si rispetti ignora del tutto la pochezza di cui è portatrice. Crede, anzi, per merito di un sistema grazie al quale si è elevata, di rappresentare perfino un modello di virtù. E, voilà, ecco che le eccellenze dell’oscenità umana come la menzogna, la piccolezza, la cattiveria diventano armi convenzionali da sfruttare al meglio per la realizzazione della mediocrità in ogni campo, dalla politica alla cultura, dalla comunicazione allo spettacolo, dal complesso comparto amministrativo a quello fondamentale della scuola e dell’istruzione. Non credo che argomentare in senso moralistico sui simil-Nosferatu della mediocrità possa risultare apprezzabile, men che meno è mia intenzione proseguire in questa direzione, ma trovo interessante evidenziare un curioso e singolare paradosso di ordine squisitamente filosofico: la mediocrità in auge dei nostri tempi condanna “all’aurea mediocritas” gli intelligenti, i talentosi, gli avveduti. E, qui, bisognerebbe ridere! Ridere, superiormente. E, amaramente, certo. Il divertimento è altrove.
Un pittore “soul” come Modigliani e uno scrittore “jazz” come Dostoevskij, nell’intimismo delle loro opere, ci avevano avvertiti per tempo. L’artista livornese invitava a guardare la magnificenza dell’anima nella sua semplicità; il maestro russo a contemplarla nella sua complessità e a temerne la degenerazione. Oggi, in special modo noi italiani, siamo una società che sbatte contro un concetto superato e involutivo di esteriorità, non sapendo andare oltre l’apparenza, il propagandato, il celebrato. Non sappiamo guardare all’anima delle cose, dei fatti, degli eventi. E quel che è peggio, siamo soli, senza riferimenti davanti al dilagare volgare dell’incultura, dell’inespressività, dell’insignificanza. Abbiamo scrittori muti, artisti distratti, intellettuali fiacchi, che sono loro stessi noti al pubblico tramite un’aderenza vomitevole al perverso sistema di relazioni che regola la medesima vita pubblica e sociale del paese. E, mi viene in mente un capolavoro del gigante, prima citato, Fëdor Dostoevskij. Penso a “Memorie dal sottosuolo”, un’opera che per l’attualità dei suoi contenuti sembra essere stata scritta da pochi giorni, dove il protagonista senza nome dice: “Io non solo non ho saputo diventare cattivo, ma non ho saputo diventare niente: né cattivo né buono, né furfante né onesto, né eroe né insetto. E ora vivo nella mia tana facendomi beffe di me stesso, con la maligna e vana consolazione che d’altronde un uomo intelligente non può diventare sul serio «qualcosa», solo uno stupido diventa qualcosa.”
In ultimo, non resta che augurarci che il trionfo della mediocrità sia pur sempre un’espressione, anche se piccolissima, di democrazia, non di intolleranza. Magra consolazione, ma tant’è.
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