Scuola
Primo giorno di scuola, nuove sfide e vecchie urgenze
Il sistema scolastico italiano riceve dagli italiani una sufficienza stiracchiata, quasi una promozione di incoraggiamento più che un riconoscimento di merito: “potrebbe, ma non si applica”.
Lo racconta l’ultimo rapporto FragilItalia del Centro Studi Legacoop-Ipsos, che assegna una valutazione media di 6,4 alla scuola nel suo complesso. Non tutte le fasi del percorso, però, vengono giudicate allo stesso modo: mentre asili nido, infanzia e scuola primaria superano l’esame con voti intorno al sei e mezzo, il solito punto debole sono le scuole secondarie, che si fermano appena sopra la soglia della sufficienza. Lì, ormai storicamente, risiede la radice del mismatch tra istruzione e futuro accesso al mercato del lavoro. Solo l’università ottiene un punteggio più rassicurante, vicino al sette, confermandosi il livello di istruzione con l’immagine più solida.
Dietro questi numeri si nasconde una frustrazione diffusa che, a ben guardare, non sorprende. L’Italia figura da anni in posizioni medio-basse nelle classifiche OCSE-PISA, che – pur in modo controverso – misurano la preparazione degli adolescenti in matematica, scienze e lettura-comprensione del testo. Il giudizio delle famiglie, insomma, per quanto impressionistico tutto sommato si allinea ai dati reali internazionali, segnalando un sistema che fatica a tenere il passo con gli standard più avanzati.
Il nodo principale riguarda i programmi di studio, percepiti da quasi un intervistato su due come obsoleti, troppo teorici e poco connessi al mondo reale. A questo si aggiungono la scarsa motivazione degli insegnanti, le condizioni inadeguate di molte scuole e una cronica carenza di docenti. Problemi noti da decenni, ma mai affrontati con la necessaria radicalità in termini di investimenti. Non è un caso che l’Italia abbia uno dei corpi insegnanti più anziani d’Europa (e una condizione di riconosciuto e motivato malessere delle generazioni più giovani) e retribuzioni mediamente più basse rispetto ai Paesi vicini: una miscela che rende difficile attrarre giovani laureati e mantenere alta la motivazione di chi già insegna.
Le difficoltà non si limitano all’organizzazione della scuola, ma riguardano anche la capacità di trasmettere le competenze attuali o addirittura del futuro. Solo quattro italiani su dieci pensano che l’istruzione offra una preparazione adeguata in campo linguistico e digitale; scende addirittura a due su dieci la quota di chi ritiene soddisfacente la formazione sulle competenze “green”, quelle legate alla sostenibilità e alla transizione ecologica. Un dato particolarmente sensibile, se si considera che l’Unione Europea – giusto o sbagliato che sia – sta spingendo proprio su questi ambiti come leve decisive di sviluppo nei prossimi decenni. In altri Paesi europei, già dalla primaria si sperimentano percorsi legati all’educazione ambientale o all’intelligenza artificiale, mentre in Italia molte scuole restano ferme a laboratori informatici datati e programmi poco aggiornati.
A rendere il quadro ancora più complesso è l’ormai annoso divario territoriale. Per oltre sei italiani su dieci, le scuole migliori si trovano al Nord, mentre solo un’esigua minoranza indica il Sud. La percezione di qualità si lega anche al contesto urbano: le grandi città, grazie a una maggiore concentrazione di risorse e servizi, risultano avvantaggiate rispetto alla provincia. Un’asimmetria che trova riscontro nei dati concreti: secondo l’ISTAT, la dispersione scolastica nel Mezzogiorno si attesta a quasi il doppio rispetto al Nord.
Nel frattempo, un altro fenomeno sta inevitabilmente ridisegnando il panorama della formazione: ossia la crescita delle università digitali. Nate come risposta alle esigenze degli studenti-lavoratori e a chi non può permettersi i costi delle grandi città, queste realtà hanno visto un vero boom dopo la pandemia. Oggi raccolgono centinaia di migliaia di iscritti e vengono considerate una valida opportunità di accesso agli studi superiori, specialmente dalle nuove generazioni, da chi vive al di fuori dei grandi centri urbani e dai ceti medio-bassi. Il giudizio in proposito resta ambivalente: se da un lato molti apprezzano la flessibilità dell’offerta, dall’altro una parte dell’opinione pubblica teme che dietro quella flessibilità si nasconda un interesse privato a discapito di una maggiore fiducia nel pubblico.
Sul fondo di tutto resta la questione delle risorse. L’Italia destina all’istruzione risorse storicamente inferiori rispetto alla media europea. Una differenza che pesa su stipendi, dotazioni tecnologiche e qualità degli edifici, per restare alle fragilità indicate dalla ricerca. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) aveva promesso un massiccio investimento in digitalizzazione e ristrutturazioni scolastiche, ma a metà 2025 gran parte dei fondi è ancora in fieri, e l’auspicio è che ritardi burocratici e difficoltà organizzative permettano un’accelerazione finale.
La fotografia che emerge è dunque quella di un sistema che si regge più per volontà che per slancio. Sufficienze risicate, vecchi problemi mai risolti, competenze inadeguate rispetto alle sfide globali e divari interni che rischiano di scavare ulteriori disuguaglianze.
Eppure – per quando sembri retorico affermarlo – è proprio dalla scuola che passa il futuro del Paese. Senza un’istruzione capace di formare cittadini preparati, creativi e consapevoli, nonché capaci di incrociare le opportunità del mondo del lavoro, l’Italia rischia di restare indietro non solo nelle classifiche internazionali, ma soprattutto nelle possibilità di crescita, sviluppo e coesione sociale.
Non si tratta, quindi, di interpretare questi dati come una mera critica al sistema scolastico, poiché evidentemente essi riflettono non solamente il percepito di studenti e famiglie, ma anche di chi nella scuola lavora e s’impegna, e per l’insieme di questi fattori accumula un senso di frustrazione cui spesso fa riflesso solamente un convinto e robusto volontarismo.
La scuola, in sintesi, non può essere lasciata sola ad affrontare la quotidianità e il necessario adattamento strategico: richiede un investimento e una fiducia del sistema paese nel suo complesso.
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