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Beni comuni

Elogio dell’ombra: il perdono

di Biagio Riccio
23 Dicembre 2018

“Abele e Caino s’incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano, perché erano ambedue molto alti. I fratelli sedettero in terra, accesero un fuoco e mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il suo nome. Alla luce delle fiamme Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e, lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca, chiese che gli fosse perdonato il suo delitto.
Abele rispose:
– Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più; stiamo qui insieme come prima.
– Ora so che mi hai perdonato davvero, – disse Caino – perché dimenticare è perdonare. Anch’io cercherò di scordare.
Abele disse lentamente:
– È così. Finché dura il rimorso dura la colpa.”
È questo il significato del perdono ricostruito da Jorge Luis Borges, un intellettuale argentino definito da Sciascia il teologo degli atei.
Il perdono è in primo luogo dimenticanza, rimozione dell’offesa, lasciare che il tempo inesorabilmente possa ripulire e ricoprire tutti i torti.

Chi perdona possiede la grazia divina di vedere il mondo con altri occhi che sono quelli semplici della legge dell’amore: l’offeso ha la purezza immacolata della catarsi, perché dona la sua carità, la lucentezza adamantina del suo animo brilla come una seta pregiata, la sua coscienza profuma di bucato antico. Non conosce il risentimento e la superbia della vendetta.
Quando Vittorio Bachelet il 12 febbraio del 1980 fu trucidato dalle Brigate Rosse, il suo figliolo Giovanni disse, con mitezza, dall’altare: “Preghiamo anche per coloro che hanno ucciso mio padre, perché sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta sempre la vita e mai la richiesta della morte”.
Dopo il perdono tra fratelli, che si ricongiungono e spezzano le catene dell’odio e della legge del taglione, risplende la vita che si colora della trasparenza dell’acqua nitida e della beatitudine del cielo terso per aver rinvenuto la strada dell’amore, perché il perdono è più forte del pentimento di chi ha offeso, lo precede in quanto dono, come la sua radice etimologica ci dice.
Il perdono getta alle spalle la colpa o il disegno doloso del reo, dell’offensore, obbedisce alla preziosa legge morale del dare a prescindere, senza pretendere la resa ed il pentimento del violento aggressore.
Chi perdona non ha memoria: la memoria, liberata dalla reminiscenza del male, non è più un grembo gravido dell’offesa patita così da partorire la vendetta.

Il perdonare è una dote connaturale dei forti non dei deboli, dei miti che superano il cerchio di fuoco senza essere lambiti dalle fiamme divoratrici della ritorsione.
Il perdono risplende nella misericordia che supera la pietà, perché conferisce la direzione per un sentiero ed un cammino rinnovato. Chi è perdonato è riammesso nel contesto sociale, può rialzare la testa e gli occhi, perché non potrà vergognarsi della violenza commessa e della colpa morale sottesa alla sua riprovevole azione.
Perché il bosco sente il profumo di nuove foglie che rivestono alberi rinsecchiti, perché le onde del mare dopo la furia della tempesta ritornano chete ed accolgono l’aureo sole, sfiorate dai suoi raggi e dal melodioso canto dei gabbiani che annunciano un nuovo giorno: così si intrecciano mani che si erano prime respinte, avvinte dall’intenso odio.
Come dice Paul Ricoeur il perdono è il buon debito dell’amore.
È la ragione che supera la tragicità della violenza, perché riannoda i fili di una vita persa: chi si vendica è solo, non conosce la dimensione dell’alteritá, sente forte l’incompiutezza di una vita disperata, rimossa. Chi risponde con violenza alla violenza lava la colpa, ma aggiunge un’altra vittima all’odio.
Chi perdona,di converso, sa di offrire un dopo a chi è relegato e finito e che il mondo rifiuta ed aborrisce per la sua atroce e feroce violenza: è come dare linfa vitale ad un corpo esangue, far germogliare un fiore, rinascere a nuova vita, placare un animo tormentato, una coscienza piena ed intrisa di rovelli.
Scriverà Dostoevskij in “Delitto e castigo”:
“Il mozzicone di candela, che si spegneva a poco a poco nel candeliere contorto, illuminava debolmente quella misera stanza, nella quale l’assassino e la prostituta, per una strana combinazione, s’erano uniti nella lettura del libro eterno.”
Il perdono non ha bisogno di epifanie che si impongano come una testimonianza che abbaglia, non può essere ostentato, ma va generato nella fatica, nel dolore e nella discrezione, in modo da non operare rimozioni o da non essere strumentalizzato a fini di riconoscimento sociale.
Perdonare richiede dunque un sacrificio di se stessi in rapporto all’altro: si perdona affinché l’altro possa vivere, e vivere non schiacciato dalla colpa ( Enzo Bianchi “Dono e perdono”).
Forse con il perdono vediamo il volto di Dio e non sentiamo la sua assenza: tracciamo un sentiero percorso dalla ragione del cuore.
Elogiamo quell’ombra che invoca la luce del perdono, gioia dell’Assoluto.

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