“Con la morte di Elisabetta si chiude il ‘900”. Intervista ad Alberto Pantaloni

12 Settembre 2022

La scomparsa della regina Elisabetta ha alimentato l’attenzione della stampa italiana, che, come spesso capita, invece di analizzare la situazione con l’equilibrio consentito a chi ha l’agio di osservare le cose da fuori, si è abbandonata a una retorica al limite del ridicolo, quasi cercasse di mostrarsi più britannicamente afflitta dei britannici. Un atteggiamento ancor più paradossale in una campagna elettorale in cui la maggioranza dei commentatori dipinge una possibile riforma presidenzialista come la fine della democrazia in Italia, ma non lesina lodi sperticate all’ultima vera rappresentante di un’istituzione che è stata il pilastro del primo imperialismo della storia, responsabile di guerre, segregazioni razziali e stermini su scala industriale anche in tempi tutt’altro che remoti. Aldilà del folklore e del gossip ciò che emerge dalla retorica che da Londra si riversa anche in Italia è la preoccupazione per il vuoto lasciato appunto da un’istituzione storica in un paese scosso dalla crisi e attraversato anche da minacciose tensioni sociali. Ne abbiamo parlato, il giorno dopo la morte di Elisabetta, con Alberto Pantaloni, storico, studioso di Eric Hobsbawm –  il suo Eric Hobsbawm storico del lavoro è in uscita per Le Monnier – e frequentatore della Gran Bretagna anche per motivi di studio.

Sulla tua pagina Facebook ieri hai scritto: “Stavolta si chiude una volta per tutte col ‘900”. Che cosa rappresenta la scomparsa della regina che salì al trono quando c’erano ancora Churchill e Stalin?

Elisabetta svolge il suo ruolo di regnante nel periodo storico del secondo dopoguerra, della nascente Guerra Fredda, che per la Gran Bretagna è al tempo stesso l’era della decolonizzazione. Un’era in cui il paese che era stato la culla del capitalismo e una grande potenza almeno fino alla Seconda guerra mondiale, di fatto viene scalzato da quel ruolo dominante da altre nazioni in ascesa. E contemporaneamente è la potenza la cui economia cresce meno e che ha i maggiori problemi in termini di innovazione tecnologica. Insomma durante il regno di Elisabetta la Gran Bretagna attraversa una fase di ritirata totale e si comporta come una potenza morente, che affronta il proprio declino continuando a seminare danni in giro per il mondo.  Penso agli effetti della politica britannica nel subcontinente indiano, prima con la divisione tra India e Pakistan e col successivo distacco del Bangladesh. Ma anche alle macerie lasciate in Medio Oriente, abbandonando la Palestina all’avvio del processo colonizzatore israeliano. Discorso analogo per le Indie occidentali. Fino ai primi anni ’60 il grosso dell’immigrazione in Gran Bretagna arriva da questi territori – Giamaica, Trinidad e Tobago ecc. – e dall’Irlanda. Nel 1948, l’anno in cui la Empire Windrush approda a Tilbury sbarcando quasi 500 giamaicani, la Gran Bretagna concede la cittadinanza a tutti i cittadini del Commonwealth, poi però si rende conto che il fenomeno dell’immigrazione economica sta crescendo. E da lì inizia a svilupparsi un processo di razzializzazione dei rapporti, con una crescita del razzismo verso le minoranze nere e anche asiatiche che non risparmia le fasce popolari. Un fenomeno che il premier laburista Harold Wilson nel 1964 cerca di arginare intervenendo contro la discriminazione razziale, ma allo stesso tempo confermando il blocco degli ingressi deciso in precedenza dai Tories. Postcolonialismo, postimperialismo, razzismo e un posizionamento internazionale pro-NATO sono i vizi che sopravvivono al declino britannico, perché decade l’impero ma non la vecchia mentalità imperiale.

Allo stesso tempo però l’Inghilterra è anche la culla del movimento sindacale.

Certo, l’Inghilterra è un paese in cui da una parte trovi, appunto, una perdurante mentalità imperiale e dall’altra un movimento operaio che nelle lotte per la difesa delle proprie condizioni mostra un livello di compattezza e di combattività ancora elevato. Due elementi che convivono e si attraversano. Agli inizi degli anni ’60, quando si sentono i primi effetti della crisi economica, Enoch Powell, ministro conservatore, mette in guardia dal pericolo che gli immigrati cambino la cultura e le tradizioni inglesi e le sue posizioni incontrano il favore anche di larghi strati della classe operaia. Ci sono persino scioperi contro gli stranieri che raccolgono migliaia di adesioni. Tornando a Elisabetta, gli storici di ogni orientamento sono concordi nel rilevare che è stata la regina che meno ha interferito, più per impossibilità che per scelta, nell’azione concreta dei governi britannici. Ciò non toglie che Elisabetta e la Corona siano il simbolo e le ultime vestigia di quel mondo e di quella contraddizione.

Oggi citavi un passo dell’Invenzione della tradizione di Hobsbawm secondo cui “la nascita del ritualismo reale” ha fatto “da contrappeso ai pericoli della democrazia popolare”. In quel libro si sottolinea anche il ruolo dei mass media nell’alimentare quel ritualismo. Che funzione svolgerà secondo te la liturgia dell’addio a Elisabetta nella società inglese?

Questo sarà il primo funerale di Stato di un monarca nell’epoca dei mass media, dal momento che Giorgio VI, padre e predecessore di Elisabetta, muore nel ’52. A mio avviso nell’immediato avrà la funzione di ricompattare una nazione che attraversa una crisi economica pesantissima. L’inflazione è all’11%, con un costo della vita già molto più elevato del nostro e questo sta provocando un’ondata di scioperi di notevole intensità. Di fronte a questa situazione e in presenza di un ceto politico imbarazzante, credo che inizialmente prevarrà il tentativo di preservare un minimo di consenso sociale intorno allo Stato e alle sue politiche capitalistiche, facendo leva sulla figura di Elisabetta e sull’atmosfera catartica dei funerali. Ma credo che durerà poco, perché la gente è arrabbiata. Non c’è solo il carovita, c’è il problema della casa, della sanità – l’NHS per gli inglesi e un’istituzione sacra e Johnson fece la campagna sulla Brexit dicendo che l’UE voleva privatizzare la sanità – e infine ci sono una coscienza e una tradizione ambientaliste e pacifiste ancora forti.

Per il momento però alcuni sindacati, come la CWU e persino la combattiva RMT, hanno annunciato la sospensione degli scioperi dei postali e dei ferrovieri.

È vero, come è vero anche che un sindacato importante come Unite non ha pronunciato una sola parola sulla scomparsa della regina. Ma in ogni caso, come ti dicevo, nell’immediato la retorica dell’unità funzionerà. Noi viviamo in un paese che ha avuto la peggior monarchia d’Europa, che ha fatto la guerra di liberazione dal nazifascismo e che ha avuto il partito comunista più grande dell’Occidente e un livello di conflittualità altissimi, traendone uno scarso “rispetto” per l’autorità. Un fenomeno simile, forse, solo a quello dei francesi. Per noi, quindi, è difficile capire questa sorta di psicodramma collettivo che si sta dando in Inghilterra. Anche perché le differenze tra la monarchia britannica e la repubblica italiana sono rilevanti. La nostra monarchia è sempre intervenuta a gamba tesa nelle questioni pubbliche. Pensa a Vittorio Emanuele II, che si mette d’accordo con Garibaldi e proprio con gli inglesi sulla spedizione dei Mille, scavalcando Cavour e a insaputa di quest’ultimo. In Gran Bretagna, dalla decapitazione di Carlo I la monarchia è stata progressivamente sempre più limitata attraverso un lungo processo di costituzionalizzazione e democratizzazione del governo. Il Regno Unito è una monarchia costituzionale parlamentare (anche se una vera e propria costituzione, come quella italiana o francese, non esiste). Il suo assetto è tripartito: Corona, parlamento ed Esecutivo. Quindi, nell’immaginario collettivo inglese, anche popolare, la Corona britannica ha incarnato un elemento di terzietà, quasi di difesa degli interessi popolari. Già in Irlanda del Nord, Scozia e Galles la percezione è molto diversa, ma in Inghilterra, solo per fare alcuni esempi,  il post di condoglianze alla Regina sul sito di Corbyn ha avuto più di 55.000 like, artisti musicali come gli Iron Maiden, o addirittura Johnny Rotten, l’ex leader di quei Sex Pistols che cantarono la dissacrante “God Save the Queen” nel 1976,  hanno celebrato la dipartita di Elisabetta. Al momento, quella che per noi è un’ubriacatura post lutto prevale, poi vedremo.

Qual è il futuro dell’istituzione che è stata il pilastro del primo imperialismo nell’era della Brexit, della pandemia e dello scontro USA-Cina? L’impressione è che tra poco, anche se avremo un nuovo re, nulla sarà più come prima.

Infatti nulla sarà come prima. Ma è difficile rispondere alla domanda, perché la velocità degli eventi oggi è tale che uno si immagina un possibile sbocco di una situazione e poi magari accade l’opposto. Ora vivremo questa breve parentesi tra i funerali e l’incoronazione. Dopo credo che il quadro per la monarchia non sarà più così solido. La mia impressione è che, nonostante i suoi 96 anni, Elisabetta abbia fatto ancora da “ombrello” a una serie di contraddizioni che attraversano la società britannica e abbia impedito che queste deflagrassero apertamente, anche facendo leva sulla simpatia popolare di cui godeva. Ora questo ombrello non c’è più. Carlo è un grande attore di teatro, secondo me avrebbe avuto una buona carriera se avesse scelto quella professione, ma per il resto è un disastro. Non ha l’autorevolezza della madre, che è stata la regina di una potenza imperialista, nata in un mondo fatto di guerre, di lotte di liberazione nazionale, di conflitti violentissimi e cresciuta con la tempra necessaria ad affrontare quel mondo. È stata, ad esempio, l’unica figura in grado di mandare la Thatcher a spigolare. Del resto anche a livello politico oggi a Westminster mancano figure autorevoli. La nuova premier Liz Truss qualche mesa fa, quando era segretaria agli esteri, ha rimediato una gaffe colossale col ministro degli esteri russo Lavrov: non sapeva che le regioni di Rostov e Voronezh si trovano in Russia.

Tu prima accennavi a Scozia e Irlanda…

Infatti, uno dei problemi sarà verificare come tiene l’architettura nazionale e “internazionale” del Regno Unito. La Scozia ha rinnovato la richiesta di un referendum sull’indipendenza e non credo che gli scozzesi si fermeranno di fronte alla scomparsa di Elisabetta. In Irlanda del Nord da due mesi Londra blocca il varo di un governo del Sinn Fein, che a mio avviso sta giocando molto bene la sua partita in questa delicata situazione sociale. Ti faccio un esempio banale. In Italia siamo abituati a sentire i politici parlare di famiglie e imprese. La leader del Sinn Fein, Michelle O’Neill, invece parla di famiglie e lavoratori. Non è solo un problema semantico o linguistico.

In una delle nostre ultime newsletter abbiamo tradotto un editoriale del Tribune che evocava gli scontri degli anni ’80 tra il sindacato e la Thatcher, che Elisabetta giudicava confrontational and socially divisive, “portata allo scontro e socialmente divisiva”. Per un verso è un rischio, per un altro è un’opportunità.

Vista dal punto di vista delle classi subalterne è certamente un’opportunità. Io credo che il governo dovrà concedere qualcosa al sindacato, perché non è in condizioni di aprire un fronte con l’Irlanda del Nord e la Scozia e allo stesso tempo con le organizzazioni sindacali. E siccome mi pare difficile, ad esempio, che concedano un nuovo referendum alla Scozia, penso che tenteranno di blandire il sindacato o almeno una parte di esso. Su questo pesa anche un altro aspetto che differenzia la situazione inglese dalla situazione italiana. Là le relazioni industriali sono molto diverse: l’intervento del governo è ridotto al minimo, perché sono concepite come relazioni tra aziende e sindacati, insomma il classico modello neoliberale. Perciò se le aziende mollano – e mi pare che parecchie sugli aumenti salariali stiano mollando –  il governo si dovrà adeguare. Alla fine sarà interessante capire se assisteremo a cambiamenti di tipo “genetico” o i conflitti torneranno nell’alveo della tradizionale interlocuzione politica e sindacale tipica della Gran Bretagna. Quel che è certo è che oggi la situazione è molto movimentata.

L’intervista è tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info del prossimo 13 settembre

TAG: Alberto Pantaloni, Gran Bretagna, regina Elisabetta, trade unions
CAT: Storia

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