Cronaca da un buco nero

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26 Aprile 2016

I prati smeraldo brucati da pecore mansuete si susseguono senza soluzione di continuità, i monti lontani hanno ancora la cima innevata. Sembrerebbe di essere in Trentino se le strade non fossero solcate da onnipresenti  Golf II dai colori improbabili e dalle carrozzerie vissute. Sono in Bosnia Herzegovina. Su un bus sloveno partito da Sarajevo sto raggiungendo Sebrenica, per visitare il luogo dove venti anni fa si è compiuto un eccidio che il Tribunale dell’Aja ha recentemente riconosciuto come genocidio. Gli strati di pensieri che si sono affastellati in questi giorni sarajevesi sono proporzionali alle parti che compongono la capitale bosniaca e, scherzi della sorte, confliggono anch’essi tra di loro. Stanno lentamente riemergendo le immagini dei servizi telegiornalistici che avevo visto quando ero uno studente universitario, riacquistando una fisicità che era impossibile da percepire davanti a una televisione immersa nella canicola palermitana. Dalla Sicilia ferita dalla violenza delle stragi mafiose, gli eventi balcanici apparivano troppo lontani per essere compresi realmente nella loro drammaticità. I fori sui muri o sulle auto avevano lo spessore dei pixel a bassa risoluzione delle televisioni a tubo catodico e bastava spingere il tasto rosso del Mivar perché la guerra – il “conflitto balcanico” – finisse immediatamente. Ma non era così.

bosnia

Sudari di polistirene rivestono le case ferite, restituendogli una normalità dai colori turbofolk mentre i prati continuano a chiazzarsi del bianco delle lapidi, organizzate in piccoli cimiteri che a cadenza di pochi chilometri si incontrano lungo la strada. Il sole riscalda l’aria e lo spirito, quasi a volerlo preparare a ciò che seguirà, e l’autobus si ferma in un piazzale davanti all’ennesima spianata di lapidi bianche e a una vecchia fabbrica abbandonata. Sebrenica, quella Sebrenica, è questo. Un sito industriale dismesso in cui venne ricavato il campo base del contingente olandese dell’ONU, il DutchBat, simbolo dell’incapacità e dell’inerzia burocratica di un’Europa che non aveva ben capito (o forse preferiva non farlo) cosa realmente stesse succedendo. La comunità internazionale si sedette a un tavolo con la convinzione di potere vincere la partita bluffando con un giocatore esperto come Mladić. Il generale, dopo aver fatto diventare la città un enclave sicura in cui arrivarono diverse migliaia di persone, chiese di vedere le carte degli avversari: i 600 caschi blu erano troppa poca roba per resistere a un esercito armato fino ai denti e deciso a cancellare ogni traccia musulmana dalla Grande Serbia.

Oggi la Storia prende forma nelle parole di Assan, sopravvissuto a quella la fuga che migliaia di uomini scampati alla cernita serba – tutti gli uomini sopra i 14 anni vennero separati dalle donne e uccisi – fecero tra i campi minati e le linee di tiro dei kalashnikov. La “marcia della morte” a cui Il fratello e il padre non resistettero. Adesso la sua missione è accompagnare i visitatori in questo buco nero della storia, tra le pieghe dell’orrore e dell’abisso umano, affinché qualcosa riemerga e possa diventare terreno comune di dialogo.

Dopo aver camminato tra le lapidi musulmane – tutte uguali e con la stessa preghiera incisa, affinché non ci siano distinzioni di sorta – varco i cancelli della fabbrica-base in cui è stato ricavato un museo-memoriale che illustra la tragedia il cui apice venne raggiunto in nell’afoso Luglio del 1995. Le foto si alternano ai graffiti dei soldati olandesi spesso irriverenti e volgari nei confronti di coloro che dovevano proteggere, alcune teche narrano le storie delle vittime attraverso gli oggetti ritrovati nelle fosse comuni – un orologio, un fazzoletto, un paio di occhiali – mentre una foto ritrae un inquietante generale Mladic brindare con il generale francese dell’ONU per un accordo che sarebbe durato quanto il vino bianco del suo bicchiere. Ma è davanti allo schermo gigante su cui scorrono le immagini del tempo – alcune girate dagli stessi serbi come trofeo di guerra – che i ragazzi che accompagno non reggono più, lasciandosi andare a un pianto denso di paura per qualcosa che non capiscono, le cui ragioni gli sono estranee e quindi terribili. Seduti sulle loro panche vedono donne e bambini assiepati lungo quel filo spinato che è ancora là fuori, guardano negli occhi degli spettri che si aggirano tra i boschi in cerca di un rifugio mentre qualcuno gli spara alle spalle. Ascoltano il lamento delle madri a cui è stato strappato il figlio stretto al petto.

DutchBat

Assan rimane fuori per tutta la durata del video, come se non volesse rivivere quotidianamente quello che passò in quei giorni, riaprire una ferita che ha un decorso lentissimo.

Non vuole rivedere i suoi occhi, scavati nel volto atterrito di quel ragazzo smunto e sfinito che compare adesso sullo schermo, appena prima dei titoli di coda.

 

 


Viaggio compiuto nell’ambito del progetto Ad Est: il dono della storia, a cura dell’associazione Rime (Carolina Stera, Laura Bacco) con gli alunni dei licei Carducci-Dante e Petrarca di Trieste

TAG: balcani, islam, memoria
CAT: Storia

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