Le donne nella rivoluzione francese

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16 Agosto 2015

Gli eventi che si susseguirono in Francia sul finire del XVIII secolo offrirono alle donne del tempo  numerose occasioni per manifestare pubblicamente una propria coscienza civile e per trovare un ruolo nella visione rivoluzionaria della citoyenneté, compiendo, al di là dei concreti risultati raggiunti sul piano politico, passi fondamentali per il dibattito sulla questione femminile. Sin dal momento in cui Luigi XVI acconsentì alla presentazione dei cahiers de doléances, infatti, non mancarono diversi esempi di petizioni raccolte da gruppi femminili che si organizzarono per comunicare al re la propria condizione di disagio economico e sociale.

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Particolarmente significativo è il cahier redatto in questa circostanza da un gruppo di “donne del Terzo Stato”, che lamentava la carenza di istruzione in cui esse versavano, i bassi salari percepiti dalle lavoratrici e la miserevole situazione delle figlie illegittime, disprezzate dalle famiglie e destinate alla prostituzione. In questo documento non veniva avanzata una richiesta di diritti politici, ma una concessione di esclusività per l’attribuzione dei mestieri propriamente femminili e l’istituzione di scuole gratuite, al fine di garantire una maggiore possibilità di sussistenza autonoma.

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Altre petizioni chiedevano l’abbassamento del prezzo del pane e riforme politiche che adottassero il criterio delle elezioni per le cariche agli uffici, dimostrando una partecipazione coinvolta e vicina anche ai temi generali dei dibattiti rivoluzionari.

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In questo quadro si collocano gli esempi di un gruppo firmatosi Dames françoises, che avanzarono la proposta di un’assemblea femminile parallela a quella degli Stati Generali; o di una Madame B.B. che, sulla scia dell’anti-schiavismo propugnato dagli ideali del’illuminismo, reclamava ad ugual modo la libertà delle donne e, seguendo le posizioni di Sieyès a favore del parlamentarismo, il diritto ad essere rappresentate da esponenti del proprio sesso. Non vi era infatti alcuno spazio per una rappresentanza femminile negli Stati Generali che vennero riconvocati nel gennaio 1789: l’unica concessione stabilita dal regolamento regio era una delega ad un procuratore per le donne che fossero nobili e proprietarie di un feudo.

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Il primo autentico evento di mobilitazione femminile si verificò in occasione delle journées rivoluzionarie nei primi di ottobre del 1789 da parte delle donne appartenenti al Terzo Stato, che si organizzarono per una marcia diretta a Versailles per lamentarsi della gravissima carenza di generi alimentari che affliggeva Parigi, la cui responsabilità veniva impartita al ceto nobiliare. La mattina del 5 ottobre queste donne, pur non avendo un progetto di rivolta violenta, invasero il municipio richiedendo l’intervento di Lafayette, il quale le guidò verso la reggia per dare loro un maggior coordinamento: pertanto, Luigi XVI accolse dodici rappresentanti, alle quali promise una distribuzione di cereali a Parigi, ma con l’arrivo in nottata di quindicimila uomini della Guardia nazionale il tono della protesta divenne più acceso e gli fu così anche richiesto di abbandonare Versailles, spostando la sua residenza nella capitale.

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Il giorno dopo, al termine di sanguinosi scontri tra la folla armata e le guardie reali che videro l’uccisione di due soldati, il re dovette acconsentire al trasferimento a Parigi, accompagnato, insieme alla sua famiglia, da ventimila persone. Sebbene l’allontanamento del re da Versailles non fosse nei loro programmi, il ruolo svolto dalle “donne di ottobre” nell’aprire la strada alla Guardia nazionale in occasione di quella giornata cruciale per le sorti della rivoluzione venne riconosciuto e celebrato nella Francia repubblicana: le “eroine della rivoluzione” vennero premiate con medaglie dal sindaco di Parigi, marciarono in occasione delle feste nazionali accanto ai conquistatori della Bastiglia, e fu addirittura dedicato un arco di trionfo in loro onore.

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Tuttavia, all’inizio del 1793 a causa dei conflitti bellici che si erano avviati sia all’interno che all’esterno del paese, si ripresentò il problema della penuria alimentare, e la Costituzione che si era proclamata nell’estate dello stesso anno non entrò mai in vigore; con l’esecuzione di Robespierre, nel luglio del 1794 e la soppressione del calmiere dei cereali qualche mese dopo, l’approvvigionamento di generi alimentari toccò una crisi profondissima che colpì drammaticamente gli strati più bassi della popolazione.

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Nei moti che scoppiarono a Parigi il 1 aprile e il 20 maggio 1795, le sanculotte dei sobborghi operai che invasero l’Assemblea costituente non ebbero stavolta l’appoggio della Guardia nazionale, che soppresse i tumulti sancendo di fatto la fine della loro partecipazione alla vita politica. Invero, l’azione delle sanculotte e degli altri movimenti femminili negli anni della Rivoluzione (come le “rivoluzionarie repubblicane”, che adottarono il linguaggio e i metodi dei giacobini durante il Terrore), non era orientata a ottenere un maggior peso politico, in quanto scaturiva, nella maggioranza dei casi, da moti di protesta contro la crisi economica, e non mise mai in discussione l’accezione esclusivamente maschile della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, così come i criteri rappresentativi stabiliti dalle costituzioni del 1791 e del 1793, che non prevedevano il diritto di voto per le donne.

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Fu però il marchese di Condorcet, uno dei più noti intellettuali rivoluzionari, ad avanzare questo tema in un suo articolo del 1790 (Sull’ammissione delle donne alla cittadinanza), nel quale denunciava tale esclusione come un “atto tirannico verso i diritti naturali”, asserendo che le donne fossero amanti della libertà e abili nella politica esattamente come gli uomini, che la loro partecipazione all’Assemblea non avrebbe compromesso la loro capacità di cura dei figli e attribuendo la causa della concezione della differenza tra maschi e femmine non alla natura ma all’educazione. La questione dell’estensione della citoyenneté (la cittadinanza attiva) introdotta da Condorcet non incontrò però alcun terreno di confronto nell’Assemblea, con l’eccezione di una minoranza nella quale si distinse il deputato girondino Pierre Guoymar, che in un dibattito del 1793 sostenne l’inclusione delle donne nel significato del termine “homme” (cioè titolare di diritti) della Dichiarazione.

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Fuori dall’ambito parlamentare, un punto di riferimento importante per il sostegno girondino alla questione femminile fu dato dal Cercle Social, il primo circolo parigino che comprendesse una sezione dedicata esclusivamente alle donne, e dal club delle Amiche della Verità, nei quali si promuoveva, anche a mezzo stampa, un discorso di rivoluzione culturale nella società francese, toccando temi come la violenza coniugale, l’assistenza per l’infanzia, la retribuzione del lavoro femminile e l’uguaglianza di diritti civili e politici tra uomo e donna. L’attività di questi club, finanziati prevalentemente da donne benestanti, si rivelò fondamentale per il raggiungimento, nella primavera del 1791, di importanti obiettivi come l’equiparazione delle donne nel diritto ereditario, l’assunzione del matrimonio come forma di contratto civile e una legge sul divorzio consensuale, unica in Europa.

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La precipitazione della situazione politica agli albori del Terrore, con l’esautoramento dalla Montagna e la persecuzione dei girondini, comportò però inevitabilmente la chiusura del Cercle Social e degli altri club des femmes, mentre Condorcet, arrestato in quanto “aristocratico”,  morì suicida in prigione. Un’aspra polemica nei riguardi dei montagnardi e della loro discriminazione verso le donne venne mossa anche da un’altra vittima del Terrore, Olympe de Gouges, scrittrice che frequentava i circoli femminili parigini, il cui impegno politico ha dato un contributo di enorme importanza al pensiero femminista. La de Gouges era stata protagonista, nei primi anni della Rivoluzione, di gesti di una notevole intraprendenza con le sue attività e i suoi lavori letterari: aveva appoggiato la marcia su Versailles, fondato la Società Fraterna d’Ambo i Sessi e diversi suoi testi teatrali, come Zamora e Mirza, ou l’heureux naufrage (1784), erano stati censurati e proibiti a causa dei contenuti fortemente provocatori verso l’ancien régime e la politica colonialistica francese.

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Sostenuta da Brissot, Condorcet e Mirabeau, era un’ammiratrice di Rousseau, di cui rivisitò il modello di contratto sociale con Le bonheur primitif de l’homme (1788), opera nella quale enunciava che il matrimonio fosse l’unione di due persone che si amano e che hanno uguali diritti. La propensione ad argomentazioni impostate sull’utilizzo di paradossi (metodo che risaliva alle dispute proprie della “querelle des sexes” di un secolo prima) la aiutò a porre in evidenza l’ambiguità del termine “homme” contenuto nella Dichiarazione dell’89, mettendone in dubbio la sua universalità, e a comporre così uno dei documenti più radicali per l’emancipazione femminile nell’età moderna, la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina.

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Pubblicata nel settembre 1791 proprio nei giorni in cui il re sanciva una costituzione che escludeva categoricamente le donne dalla cittadinanza attiva, la Déclaration des droits de la femme dedié à la reine comprendeva anch’essa 17 articoli che ricalcavano quelli della Dichiarazione originaria, nei quali era aggiunta o sostituita alla parola “uomo” la parola “donna”, e venivano avanzate richieste programmatiche di modifiche costituzionali. Di grande incisività a tal riguardo sono l’articolo IV, che denunciava la tirannia degli uomini volta a impedire che le donne potessero beneficiare delle libertà sancite dalla Dichiarazione maschile; l’articolo VI, che richiedeva la parità di accesso alle cariche pubbliche tra cittadini e cittadine unicamente in base a criteri meritocratici; l’articolo X, che rappresenta la sua più nota affermazione politica, per la quale una donna che ha il diritto di salire al patibolo deve avere parimenti quello di salire alla tribuna; l’articolo XI, che associava ai diritti politici e alla libertà di opinione la libertà per le donne di avere figli fuori dal matrimonio.

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Per la de Gouges, che si era definita un “homme d’Etat”, la rivendicazione dell’uguaglianza politica era legata all’armonia naturale che era stata rotta dal comando degli uomini verso il sesso femminile, e si fondava sull’accezione che le donne avessero le loro stesse facoltà intellettuali per prendere parte alla vita politica; inoltre, i  ruoli di madri, mogli e figlie non precludevano affatto il diritto ad essere “rappresentanti della nazione”, ma anzi costituivano proprio le qualità che lo permettevano.

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L’elenco dei diritti enunciati dalla scrittrice culmina con una postfazione dedicata al rapporto matrimoniale, che, applicando i modelli di Contract social rousseauiano e lockiano, sanciva fra gli altri il diritto di lasciare in eredità ai figli, legittimi e illegittimi, il  patrimonio comune dei coniugi, quello di poter scegliere liberamente se adottare il cognome del padre o della madre nonché quello  per la donna abbandonata di essere adeguatamente risarcita dal marito.                                                    La Bock scrive che “con il suo contratto sociale, la de Gouges accostò ai diritti politici i diritti civili dell’individuo femminile coniugato e traspose ai rapporti coniugali fra i sessi il dibattito sul difficile rapporto fra i diritti politici e quelli civili, fra la cittadinanza attiva e quella passiva”. Olympe de Gouges, che pagò con la vita i suoi duri atti d’accusa verso la dittatura giacobina (venne giustiziata il 3 novembre 1793, seconda donna pochi giorni dopo la regina Maria Antonietta, “per aver dimenticato le virtù che convengono al suo sesso” ) scontò anche la diffidenza della società francese del tempo: per molti anni il suo esempio di donna autonoma e istruita la fece considerare un personaggio bizzarro, dalla biografia incerta e vista con sospetto per il suo essere una “femme de lettres”.

 

Giacomo Santoru

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TAG: Luigi XVI, Napoleone, Ottocento, Terrore
CAT: Storia

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